1 Marzo 2001
Tragico wagneriano Toscanini
Non considerava
il compositore tedesco un mito, un modello ideologico, ma il più grandioso
realizzatore di una concezione universale dell’arte: basta ascoltare l’ouverture
dei Maestri cantori o la Marcia funebre di Sigfrido
In una delle sue
famose interviste al vetriolo Sergiu Celibidache, dopo aver ingiuriato
praticamente tutti i direttori dell’epoca, a chi gli domandava quale direttore
gli avesse fatto più impressione fra quelli che aveva ascoltato nella sua vita,
rispose senza esitazioni: Mendelssohn. Sconcerto dell’intervistatore.
«Mendelssohn?». «Sì, Mendelssohn quando dirigeva Bach e Schubert, e io suonavo
con lui».
Celibidache, che
credeva nel ciclo delle rinascite, era sicuro di aver vissuto molte vite
precedenti. La sua non era dunque solo una battuta. Ma, convinzioni filosofiche
a parte, Celibidache voleva sottintendere anche altro. Il destino
dell’interprete è per sua natura effimero, e non può essere tramandato se non
dal ricordo di coloro che lo vissero. La trappola era tesa, e l’intervistatore
vi cadde: e i dischi? Immaginiamo il ghigno del vecchio santone: «Fare dischi è
come andare a letto con la fotografia di Brigitte Bardot». A quel tempo
Celibidache non sapeva ancora che, se è per questo, oggi andiamo a letto anche
con i suoi dischi postumi. Ma, almeno lui, noi lo abbiamo frequentato anche da
vivo!
Secondo Norman Lebrecht, il “mito del maestro” è un fenomeno legato alla
nascita del disco e ha un capostipite: Arturo Toscanini. Che Celibidache
detestava per questo almeno quanto odiava il suo erede Karajan (ma questo è un
altro discorso). Il mito di Toscanini è, sempre secondo Lebrecht, un fenomeno
essenzialmente americano: ossia il risultato della sua decisione di abbandonare
l’Europa per motivi non solo politici ma anche economici, e di diffondere la
sua arte utilizzando i due mezzi di comunicazione per eccellenza moderni: la
radio e il disco (la televisione, quella non fece in tempo a sfruttarla interamente).
Vengono in mente le parole di fuoco di Adorno sui feticci in musica, ampiamente
riecheggiate dai suoi nipotini con curiose conseguenze: per esempio esaltare
Toscanini per le sue scelte antifasciste, come se in ciò stesse la sua
principale grandezza di artista, continuando però a preferirgli, come artista,
il nazista Furtwängler.
Tra il 1929 e il 1946, gli anni della sua piena maturità, Toscanini
produsse una serie impressionante di incisioni prima con l’Orchestra
Filarmonica di New York, della quale fu direttore principale fino al 1936, poi
con l’Orchestra di Filadelfia (1941-’42), infine, a partire dal 1937, con la
compagine orchestrale creata appositamente per lui, l’Orchestra Sinfonica della
Nbc (National Brodacasting Company), per la quale ebbe la possibilità
(eternamente invidiatagli da ogni direttore) di scegliere personalmente i
musicisti. Tutte queste incisioni (e registrazioni) sono state ora raccolte in
quattro cofanetti (otto cd tecnicamente perfetti) dall’Istituto Discografico
Italiano e costituiscono, anche in rapporto alle più note testimonianze del
secondo dopoguerra (fino allo straziante ultimo concerto wagneriano del 4
aprile 1954), un compendio altamente indicativo dell’arte interpretativa di
Toscanini. Anche a rischio di inimicarci Celibidache nell’attuale tra le sue
nuove vite, non abbiamo paura ad affermare che la grandezza di Toscanini non è
un fenomeno né americano né commerciale, ma semplicemente musicale. Ed è un
fenomeno, grazie ai dischi, assolutamente imperituro.
Musicale, dunque.
Ma in che senso? Per capirlo, dobbiamo prima spiegare come andrebbero ascoltati
questi documenti. Anzitutto nell’ordine in cui sono presentate le pagine nei
dischi: che non è cronologico, ma suddiviso per autori, epoche e stili. Si
inizia con le sinfonie di Rossini e di Verdi (nessuno ha più aggiunto nulla di
nuovo, in seguito), poi con pezzi consimili (ouvertures e brani sinfonici) del
Sette e dell’Ottocento. E qui, verso la fine del secondo cd, ecco la prima
sorpresa, anzi il primo blocco di sorprese: Ouverture del Franco
cacciatore di Weber, Poeta e contadino di
Suppé, Terza Suite per orchestra di Bach, valzer I pattinatori di Waldteufel. L’immagine sanguigna,
mediterranea che siamo abituati ad associare a Toscanini ne viene perentoriamente
smentita in favore di un’eleganza di tratto, di una cultura del suono, di un
senso dello stile che hanno le loro radici altrove, nella profondità e nella
leggerezza dello spirito romantico. E nella malinconia di un sogno accarezzato
con infinita dolcezza e poesia. E con il distacco di chi sa capire.
Ciò è solo un viatico per il blocco successivo: Wagner. E qui s’imporrebbe
un’osservazione più generale. Colui che fu considerato, ed è considerato
tuttora, un punto di riferimento nella storia dell’interpretazione verdiana,
era in realtà un interprete elettivamente wagneriano: ossia un cultore non del
melodramma, ma del dramma musicale. Non solo. La sensibilità di Toscanini non
era di specie operistica bensì sinfonica; e nel sinfonico, quella di un
classico. A dimostrarlo stanno i dischi successivi, con Mozart, Beethoven, Čajkovskij
(la Patetica) e Brahms (la Prima
Sinfonia), in questa progressione. Dove le conclamate qualità di
Toscanini (l’energia e la vitalità ritmica, l’implacabile precisione della
tecnica, l’assoluta padronanza dell’orchestra) persistono, ma passano in
secondo piano rispetto al dominio della forma, alla finezza dell’analisi e
della resa del carattere, alla sapiente distribuzione dei piani sonori, alla
esatta definizione dell’arco d’insieme, all’emozione del sentimento. Certo, il
suo Čajkovskij e il suo Brahms sono lontani sideralmente dagli epigoni del
tardo romanticismo tedesco, e mostrano quasi una brusca insofferenza verso la
pesantezza dell’accentuazione retorica: ma non sono proprio questi gli aspetti
che più ammiriamo, oggi, in un interprete che definiamo moderno, e che forse
domani ci parrà un classico? In
Toscanini li troviamo realizzati allo stadio più completo.
Inizia a questo punto la
seconda fase del nostro ascolto. Perché dischi di questo tipo vanno non solo
ascoltati, ma riascoltati. Partendo da ciò che più ha colpito la nostra
attenzione, e soffermandosi ora sui particolari. È inevitabile allora tornare a
Wagner. Che cosa contraddistingue in modo inequivocabile Toscanini dagli altri
grandi direttori wagneriani? Essenzialmente un fatto. Egli non considerava
Wagner un mito, un modello di cultura e di ideologia, ma il più grandioso
realizzatore di una concezione universale dell’arte. Ascoltando l’ouverture dei
Maestri cantori si ha la precisa sensazione di come
questa arte sia grande non in quanto tedesca, ma in quanto suprema idea
dell’eternità, del ciclo della vita e della morte. In altri termini, si rivela
qui il carattere più profondo della personalità di Toscanini: il lato tragico.
L’essenza del modo di accostarsi alla musica era, in lui, tragico: anche nel
cercare strenuamente una perfezione esteriore che potesse rendere, forse
placare, il fuoco interiore di una rappresentazione ideale. Al culmine della Marcia funebre di Sigfrido Toscanini fa letteralmente
esplodere la musica in un pianto dirotto. E in quel pianto c’è tutta la
disperazione dell’interprete di non poter dire tutta la grandezza di ciò che la
musica, per mille associazioni, significa, ma di poterla solo additare e incalzare
con furore, con affanno, con determinazione. E quella determinazione è la sua
anima.
Il mito di Toscanini? Essere un direttore senza miti.