01/01/2000
Il combattimento di Arte e Consumo
Vedo il Novecento
come un secolo spezzato in tre tronconi. Il primo, che si prolunga fino alla
Grande Guerra, è una fiammante appendice dell’Ottocento e, insieme col secondo,
che comprende gli anni fertilissimi fra le due guerre, viene definito
convenzionalmente, ma con ottime ragioni, “Novecento storico”. Solo il terzo –
dal secondo dopoguerra a oggi – è il nostro secolo: nel senso che le sue problematiche
sono ancora le nostre e noi ne siamo parte attiva, non solo come spettatori, ma
anche come attori. Sulla prima metà del Novecento, che è un capitolo – chiuso –
della storia della musica, è difficile dare una risposta al quesito. Sarebbe un
po’ come doverlo fare per l’Ottocento o sul Settecento. Sono più fondamentali
Bach o Haendel, Mozart o Beethoven, Wagner o Brahms? Ossia Puccini o
Richard Strauss, Schönberg o Stravinskij, Berg o Webern? Sono questioni che sul
piano storico non hanno senso, e su quello personale attengono al gusto, alla
misura e alla cultura di ognuno. Potrei dire che per me Strauss vale dieci
Puccini, e che Schönberg è molto più importante ma Stravinskij mi diverte di
più: anche se riuscissi a spiegarlo criticamente, tutto resterebbe immutato.
Una parte del nostro secolo non solo è ormai storicizzata ma viene valutata con
metri di giudizio che non differiscono da quelli classici. A nessuno verrebbe
mai in mente di sostenere che il Novecento non abbia prodotto arte di livello pari
a quella del passato e non sia stato anzi un secolo di creatività assoluta,
addirittura unico nella sua varietà e ricchezza: tanto vario e importante da
non consentire una graduatoria se non per via astratta o, peggio, ideologica.
Da questo punto di vista, il secondo Novecento, se da un lato ne è la
conseguenza, dall’altro presenta aspetti che segnano una svolta nettamente
indirizzata verso la discontinuità. Non fu il gesto plateale – rivolto a una
platea minima – delle avanguardie degli anni Cinquanta a provocare una frattura
profonda, bensì il cambiamento del tessuto sociale, civile e culturale a
determinare, radicalizzandola, questa svolta: e questo è il fatto centrale del
Novecento. La divaricazione sempre più netta fra musica d’arte e musica di consumo,
fra élite e massa; la sovrapposizione di un repertorio normativo (compresa una
parte del Novecento) al bisogno quotidiano di musica attuale, intesa anche come
prodotto del giorno; la rapida diffusione dei mezzi di riproduzione e di
comunicazione globale, che hanno alterato metri e valori, influenzando mercati
e profitti; l’importanza sempre più eccessiva data agli esecutori rispetto ai
creatori: quasi che il segno distintivo della contemporaneità fosse la
necessità di un’interpretazione invece che di una creazione. L’accadimento
fondamentale che a un certo punto si è incuneato nel Novecento è stata la
schizofrenia con cui il passato e il futuro si sono disincarnati dal presente,
aprendo una voragine nella stessa nozione di progresso e conservazione. Gli
uomini e le opere che mi sembrano fondamentali nel Novecento nostro
contemporaneo appartengono a due tendenze. La prima è quella di coloro che
hanno previsto e anticipato questa situazione e ne hanno in un certo senso dato
testimonianza solitaria, offrendo anche alcuni possibili correttivi a futura
memoria. Adorno, per esempio, nei suoi scritti sulla mercificazione estetica
prodotta dall’industria della cultura di massa; o Šostakovič, che considero
l’emblema della musica del secondo Novecento. Sono coloro che hanno saputo
vedere con chiarezza nell’oscurità o riscaldare con un’emozione anche
l’oppressione e la sofferenza. La seconda categoria riguarda invece la ricerca
di dare una voce, problematica, al nuovo, come accade in Sinfonia
di Berio, non a caso scritta nel 1968-1969: il simbolo di una narrazione
continuamente interrotta, in cui l’afasia diviene linguaggio e il linguaggio
ricostruito mezzo di espressione che dialoga coi morti e coi vivi, per
insegnarci a capire cosa accade senza perdere la grazia del gioco. Anche la
seconda metà del Novecento ha prodotto grandi opere del cui valore forse non
siamo ancora ben consci; ed è ovvio che non saranno le nuove tecnologie a
impedire lo sviluppo della musica. La tecnologia dei nuovi strumenti a tastiera
e ad arco fu già vista alla fine del Cinquecento come una minaccia alla
tradizione secolare della polifonia: con essa si aprì una fase di sviluppo che
è durata fino al nostro secolo. Il problema non è temere, con la fine del
millennio, la fine della musica, ma perdere nella omologazione vacua la
coscienza della sua importanza non effimera e del suo valore non mercantile.