01/10/1994
Quanta enfasi, Semiramide!
Semiramide
(Venezia, 1823) è l’ultima opera composta da Rossini prima della fuga in
Francia. Congedo, più che da un genere, cui bene o male seguitò a essere fedele
soprattutto nelle sue utopie, da un ambiente, da una consuetudine, insomma da
tutto un modo di intendere e praticare il teatro musicale nel Paese del
Belcanto. Tale congedo fu, come ognun sa, splendido, sontuoso, acconciamente
dimostrativo, quasi “emblematico”: provassero gli altri, se ci riuscivano, a
fare altrettanto o meglio; lui, Rossini, si chiamava fuori dal gioco, a quelle
condizioni. Tirando un profondo respiro di sollievo, fra l’altro, come liberato
da un obbligo insensato.
La mescolanza ora
acida ora brillante di partecipazione e distacco costituisce, nella sua chimica
instabile, il vero problema interpretativo di un’opera fondamentalmente dotta,
tutt’altro che immediata. Finché ad eseguirla erano soprattutto ugole
brillanti, in edizioni opportunamente tagliate, la bilancia pendeva tutta da un
lato, ma il piatto era ricco e soddisfacente: che cosa desiderare di più di una
Sutherland e di una Horne nei ruoli di Semiramide e di Arsace? Ma da quando si
è affermata la pratica sacrosanta delle edizioni critiche e integrali,
riequilibrando secondo ragione e istinto le proporzioni della immensa
partitura, il precario punto di incontro si è venuto sempre più spostando, in
una prospettiva di fuga al di là degli angoli. L’angolo dei cantanti, fino ad
allora sufficientemente protetto e riconosciuto nel suo primato, si è dovuto
giocoforza confrontare con quello dei direttori d’orchestra, alle prese con un
arco drammaturgico elastico e dilatato, tanto classicamente perfetto quanto
costellato di insidie e trabocchetti.
Insidie e
trabocchetti nei quali Ion Marin, il direttore di una recente produzione
discografica di Semiramide realizzata dalla Deutsche
Grammophon, abbocca come il pesce all’amo. L’intento di accentuare il tratto
drammatico in un’opera ch’è soprattutto decantazione del dramma in
rappresentazione di stile (come del resto infallibilmente spiega Philip Gossett
nell’ottima nota illustrativa; chiosata a dovere dal nostro Paolo Fabbri); tale
intento, si diceva, porta a un’enfasi fastidiosa, in costante sovraesposizione
di rapporti tra canto e orchestra, con profilature secche e aguzze. La mancanza
di rotondità, di delicatezze e sfumature, è d’altronde una costante dell’intera
proposta esecutiva: che non difetta, alla base, di mezzi cospicui, ossia di
voci importanti oltre che famose. Fra queste, una s’impone su tutte: Jennifer
Larmore nel ruolo di Arsace, sensibile nei cantabili, nobile nell’espressione,
tesa nelle colorature, svettante negli acuti. Accanto a lei, Cheryl Studer,
come Semiramide, commette l’ennesimo sbaglio di parte della sua strana,
malaccorta carriera: a furia di voler essere tutto, soprano lirico, drammatico
e d’agilità, s’accontenta di raccogliere scarsi interessi da un patrimonio
vocale ragguardevole, in origine cristallino. S’intuisce, fra l’altro, che mai
potrebbe sostenere un tale ruolo in teatro.
Chi invece gronda
teatro da ogni nota è Samuel Ramey in veste di Assur: cui nuoce solo certa
esuberanza che non sempre rima perfettamente con padronanza (stilistica). Avercene,
comunque, di cantanti così, per questo repertorio. Lodevole assai, soprattutto
per la disciplina e la consapevolezza cui piega una voce non potente, l’Idreno
di Frank Lopardo. Di lusso l’Oroe di Jan-Hendrik Rootering. Professionali al
massimo nel far quel che vien chiesto loro la London Symphony Orchestra e
l’Ambrosiana Opera Chorus.
Breve
conclusione. Questi tipici prodotti da studio di registrazione, che assemblano
star nella vetrina delle meraviglie, raramente sostituiscono la verità del
teatro con l’illusione della musica. E le eccezioni, sempre più rare,
confermano la regola.
Rossini, Semiramide; Studer, Larmore, Ramey, Lopardo, London Symphony Orchestra, dir Marin. Deutsche Grammophon, 437 797-2 (3 cd).