1 Ottobre 2001
La musica che gira intorno
Wolfgang
Sawallisch sta per iniziare la sua ultima stagione come Music Director
dell’Orchestra di Filadelfia. Considerato un conservatore, un custode della
grande tradizione musicale europea, ha avuto modo di osservare dall’America un
altro panorama: quali le differenze?
«Credo di aver vissuto nella mia carriera una serie di cambiamenti quali
nessuna altra epoca ha presentato. Quando ho cominciato, nella provincia
tedesca, subito dopo la guerra, la città, il teatro, la sala da concerti nei
quali lavoravi e a cui eri legato da un rapporto pressoché esclusivo erano
tutto il mondo: una famiglia allargata, dove si parlava e si coltivava la
stessa lingua. In un certo senso anche nei miei vent’anni a Monaco, come
direttore del teatro, era la stessa cosa: un repertorio consolidato, una
compagnia stabile, uno stile di vita che dava l’accento personale a una
tradizione. Monaco era Monaco in quanto si distingueva da ogni altro teatro. Poi
le cose sono cambiate».
Da quando?
«Dall’inizio degli anni Ottanta. Diciamo
che la critica, il pubblico, i media hanno cominciato a fare pressione perché
Monaco si aprisse a esperienze più internazionali. Io stesso ho cercato di
seguire questa richiesta, che a volte condividevo, altre no. Mi sono sforzato
di capire».
Con quali conseguenze?
«Ho avuto la netta sensazione che
un’epoca si fosse chiusa. E che ne cominciasse un’altra. Per mia scelta
personale, ho deciso di non dirigere più opere ma solo concerti».
A Filadelfia.
«Sì, principalmente a Filadelfia. Qui la
situazione era opposta: una lunga, tenacemente radicata vocazione
internazionale, di tipo cosmopolita e multietnico, che voleva mantenere la
propria identità. Con un orgoglio fortissimo di differenziarsi dalle altre
orchestre».
È vero che oggi le orchestre tendono ad assomigliarsi?
«Sì e no. Ci sono orchestre che hanno raggiunto un livello standard internazionale, riferito alla perfezione dei dischi, e che oggi tecnicamente sono molto progredite, ma non hanno una spiccata personalità; e altre che desiderano invece preservare la loro tradizione, e dunque la loro personalità».
Che cosa fa la differenza?
«In
primo luogo la scuola. Filadelfia, per esempio, coltiva i suoi ricambi, che
provengono da ogni parte del mondo, attraverso una scuola preparatoria nella
quale insegnano i musicisti stessi dell’orchestra, e che tramanda di
generazione in generazione il “suono” tipico di quest’orchestra, che si deve
all’impronta datale da Leopold Stokowski. È davvero un suono inconfondibile. Lo
stesso accade con i Wiener Philharmoniker, che hanno anche una tradizione,
storica e una sala unica al mondo. Altre orchestre possono rispecchiare con un
lungo lavoro la personalità del loro direttore, come per esempio i Berliner
prima con Furtwängler e poi con Karajan. Ma oggi non sono molti i direttori
disposti a fare questo tipo di lavoro. Anche perché sono le orchestre stesse a
non volerlo. I meccanici di una volta sono stati sostituiti dai piloti, e
ognuno vuole correre, magari una corsa, con i piloti ritenuti migliori. Ai miei
tempi si diventava piloti solo dopo essere stati a lungo meccanici:
Kapellmeister, come lei sa, era quasi un diminutivo».
In questi anni, che cosa è cambiato nelle tournées?
«Oggi si fanno molte più tournées,
perché la fama di un’orchestra e di un direttore dipendono dalla risonanza
internazionale. Sono momenti di verifica, di affermazione, di prestigio, non di scoperta o di ricerca. Magari di
confronto. Nelle mie prime tournées in Giappone o in Sud America, trent’anni fa, il pubblico veniva ad
ascoltare le musiche, che per loro rappresentavano spesso una novità assoluta:
anche Mozart. Trasmettevamo semplicemente un messaggio. Oggi, invece, il
pubblico conosce dai dischi tutte le musiche che vuole in ogni tipo di
interpretazione: e viene anche per fare un confronto. Le orchestre, i
direttori, lo sanno e debbono stare al gioco».
Le piace questo gioco?
«Lo trovo stimolante. A me interessa
fare bene la musica, ma in questi casi si crea una specie di complicità con
l’orchestra , si stabilisce una doppia verità, per noi e per il pubblico. Noi
sappiamo se siamo stati bravi. Serve a crescere».
Che cosa significa per Lei globalizzazione?
«Questa parola in tedesco non esiste. Mi
sono familiarizzato e nutro rispetto, talvolta ammirazione per altre culture.
Non credo che si possano tagliare le proprie radici, ma neppure imporle. In
America ho trovato spirito di competizione, non voglia di omologazione».