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1 Aprile 2003

Fantasmi e canti del signor Wolf

 

La malattia nervosa che affliggeva Hugo Wolf (di cui ricorre il centenario della morte) era di natura assai problematica. Un complesso di inferiorità schiacciante, del tutto immotivato e distruttivo, si univa a una mania di persecuzione devastante e ossessionante, a produrre una miscela esplosiva che lo avrebbe portato a una morte prematura, dopo una vita infelice chiusa nella follia e percorsa dai lampi intermittenti del genio.

Non vale naturalmente chiedersi che cosa avrebbe potuto produrre Wolf a contatto con le punte più avanzate della musica moderna primonovecentesca, e ancor più quale profitto avrebbe tratto dal connubio con la poesia novissima di Hofmannsthal, Rilke, Hesse, Trakl, Kraus, alla quale sembrava come nessuno predestinato. È tuttavia una domanda che tiene conto di un dato oggettivo: l’inattualità di Wolf, da lui sentita come una croce, era in gran parte dovuta alla fondamentale estraneità alla sua epoca, un’epoca terminale se non di decadenza, e a un senso di non appartenenza ai suoi destini, ai suoi valori e alle sue manifestazioni. In altri termini, Wolf era una figura intimamente sbilanciata tra un’ascendenza classica e una proiezione aurorale, ed esser vissuto, aver operato in condizioni quasi disperate di epigonismo fu per lui più di una condanna.

Poco o nulla ci dice esser stato egli un contemporaneo, per un viaggio tuttavia assai più breve, di Anton Bruckner, Gustav Mahler e Richard Strauss, oltre che un esponente della Vienna fin-de-siècle. Un raffronto più esteriore lo avvicina a Schubert, con il quale condivise, oltre a una malattia sifilitica contratta da ragazzo, la passione indomita per il Lied, mondo dell’irrealtà e del sogno, mezzo per ricreare nel piccolo pezzo isolato, ma intrecciato di molteplici, infinite relazioni, un’alternativa poetico-musicale alle miserie e ai condizionamenti della vita. Anche in questa scelta che dava un senso alla missione dell’arte vi era un tratto ossessivo e compulsivo di carattere nevrotico se non schizofrenico, temperato però, e in misura perfino maggiore, da un ideale assoluto per la bellezza classica, per l’autenticità del tono popolare, per le radici del canto come espressione di vita: crudelmente ironica, talora, o sinistramente umoristica talaltra, ma sempre dolorosamente vera. Il corpus liederistico di Wolf è non soltanto un baluardo eretto in difesa dell’integrità dell’arte resa fertile dalla parola, è anche un monumento perenne di vitalità e di sperimentazione, di stile unico, inconfondibile.

È con lui che il Lied appone il suo sigillo come genere e forma suprema della musica occidentale, senza venir snaturato nella sua originaria unità intatta e intangibile. La dilatazione del Lied a mezzo di implicazione sinfonica, come in Mahler, gli è estranea, anche se Wolf non manca di tessere relazioni musicali che vanno oltre l’immagine del testo e trovano nel pianoforte – si pensi ai preludi e ai postludi – una cassa di risonanza di più vasto respiro: in ciò riallacciandosi con forti segnali individuali all’esempio di Schumann e di Brahms. Vi è poi un altro aspetto da sottolineare, in apparente contrasto con il quadro generale della sua personalità: ed è il fatto che in questo rappresentante quasi unico del Lied come strumento di espressione della propria affranta natura ogni pezzo, perfino nei cicli più tradizionali e “schematici” dell’Italienisches e dello Spanisches Liederbuch, sia un aureo capolavoro perfettamente rifinito e individuato, l’anello di una catena che non svilisce mai il metallo prezioso in cui è fuso. La sfera creativa si identificava per Wolf con il Lied, ed era certo che a ciò lo spingesse la sua vocazione. Al di fuori di questa, egli produsse altre opere significative – un lavoro teatrale, musica da camera, pezzi sinfonici – ma senza raggiungere mai la stessa identità, la stessa compiuta adeguazione di intenzioni e risultati.

Resta l’enigma dell’evidente dissociazione tra un uomo infelicissimo, scosso da fantasmi terrificanti e una produzione che, pur conoscendo gli abissi più oscuri e le cadute nella più desolata delle disperazioni, mantiene sempre un alto livello di controllo stilistico e di consapevole aspirazione alla comunicazione. L’arte di Wolf pare provenire da una reazione fortissima alla rassegnazione – “Entbehren sollst du, sollst entbehren”, rinunciare tu devi, rinunciare, il motto faustiano apposto in epigrafe al Quartetto in re minore – elevata a misura di una ricomposizione del mondo e delle sue pulsioni inconsce nella quale ogni sofferenza si distende e da ultimo si annulla. Senza indulgere nel pathos, ma senza dimenticare nulla delle ragioni profonde, incancellabili, che l’avevano originata.