1 Maggio 1999
Pfitzner uomo solo
Hans Pfitzner (di
cui il 22 maggio ricorre il 50° dalla morte) incarna nella storia della musica
tedesca della prima metà del Novecento l’anima dell’artista conservatore. I
primi nomi che viene spontaneo accostargli sono quelli di Oswald Spengler e di
Thomas Mann, che non a caso gli dedicò nel 1919 un saggio di penetrante
comprensione. Erano gli anni in cui Pfitzner si trovava al centro di violente
polemiche originate dai suoi scritti concernenti questioni di estetica,
comunque ritenuti degni di risposte più o meno risentite da parte di alcuni dei
maggiori rappresentanti della cultura del tempo, fra cui Ferruccio Busoni, Paul
Bekker, Gustav Mahler e perfino Alban Berg. Ed erano anche gli anni in cui
Pfitzner era un compositore alla ribalta, dopo il clamoroso successo ottenuto
con la sua opera Palestrina, tenuta a battesimo il
12 giugno 1917 all’Opera di Monaco da Bruno Walter e subito ripresa dai più
importanti teatri tedeschi.
Contro che cosa
si batteva Pfitzner nelle sue solitarie campagne estetiche, annunciate da
titoli aggressivi, come Pericolo futurista, scritto
in risposta all’Abbozzo di una nuova estetica della musica
di Busoni, o La nuova estetica dell’impotenza musicale,
che coinvolgeva un po’ tutta la musica modernista del suo tempo? Essenzialmente
contro un’idea: che per la musica, come per le altre arti in generale, avessero
senso concetti come progresso e futuro. Sul che bisogna però intendersi.
Pfitzner, la cui filosofia dell’arte era fondata su Wagner e Schopenhauer, o
meglio sulla visione wagneriana di Schopenhauer, non rifiutava affatto le
problematiche attuali della sua epoca, di cui faceva parte e da cui si sentiva
investito in quanto compositore; ciò che rifiutava decisamente, e con un
fanatismo pari almeno al fronte degli avversari, era l’ipotesi che la
discriminante fosse nella scelta radicale di un linguaggio musicale evoluto in
se stesso e a tutti i costi nuovo, ossia intenzionato a rompere i ponti con
quello del passato. Ne aborriva non tanto gli esiti, che semmai paventava
intuendo la frattura che ne sarebbe derivata tra artista e pubblico all’interno
di una cultura spezzata, quanto le premesse: l’ottimismo profetico e la fede in
ciò che Busoni, utopicamente, aveva chiamato «il futuro della musica».
Da questo punto
di vista Pfitzner non era solo un conservatore ma anche un inguaribile
pessimista. Per lui, il valore fondamentale dell’arte consisteva nella forza
dell’esistenza creatrice dell’ispirazione, divina in quanto soprannaturale, e
capace di quella liberazione e di quella redenzione che in un dramma di idee
nessuna concezione intellettualistica avrebbe potuto giustificare. In altre
parole, l’intelletto e la volontà non sostituivano la grazia. E una visione
puramente intellettualistica – termine che comprendeva ogni idea di evoluzione
e di progresso –
avrebbe portato
alla perdita di quella nozione di presente che per Pfitzner era strettamente collegata
al pensiero della morte, beffardo testimone della vanità di ogni tentativo di
affermare per l’eternità ideali nuovi. Così in Palestrina,
il suo capolavoro sotto molti aspetti autobiografico, la salvezza della musica
non è data dalle più giovani idee di canto solistico che si stanno diffondendo
sulla spinta della riforma fiorentina, ma dalla coscienza di una missione quasi
sovrumana, perché già superata sul piano della storia. Nella scena più alta
dell’opera, Palestrina, il creatore solitario tormentato dal dubbio su senso
della sua vita e della sua missione artistica, ha una visione: le ombre dei
grandi maestri del passato gli parlano e lo confortano. Da questa ispirazione
egli trae la forza per rimettersi al lavoro e comporre, secondo la nota leggenda
ripresa da Pfitzner, l’opera salvifica, una Messa
con cui testimoniare davanti ai padri conciliari la dignità artistica e
spirituale dell’antico patrimonio polifonico.
Già tutto questo
esclude che Pfitzner possa essere considerato un artista decadente. Per quanto
egli fosse nato e cresciuto nel culto di Wagner e del romanticismo,
dell’Ottocento romantico non volle mettere in luce il disfacimento e il dolore
per la perdita di valori universali, ma semmai il persistere di forti ideali
spirituali, nel contrasto fra eternità e transitorietà alimentato dalla fuga
del tempo e dalla mutevolezza di tendenze e costumi. Pfitzner si sente custode
del passato e, come tale, partecipe spiritualmente di un travaglio che va oltre
il suo dramma personale.
Appartengono al
lato spiritualista e visionario della sua figura opere come la cantata Von deutscher Seele, del 1921, intessuta su testi del suo
poeta prediletto, Joseph von Eichendorff, e quel grande lavoro sinfonico-corale
intitolato Das dunkle Reich, del 1929, che sembra
evocare, in una rappresentazione di proporzioni michelangiolesche, la scena
della discesa alle Madri di Goethe: non a caso presente, proprio insieme a
Michelangelo ma anche ai contemporanei Meyer e Dehmel, tra gli autori dei testi
prescelti.
Si realizza in
questi lavori, al di là delle teorie, una fusione singolare tra atteggiamento
retrospettivo, di gusto talvolta arcaizzante e fondamentalmente classico, e
aurorale adesione alle durezze di un linguaggio armonico sorprendentemente ricco
di dissonanze, sospeso tra modalità e tonalità: una cifra che dà la misura di
un confronto tutt’altro che rinunciatario anche sul terreno della modernità.
La sua vena
creativa, per quanto capace di rinnovarsi e di produrre ancora lavori di
notevole livello (soprattutto Lieder, musica da camera e due Sinfonie molto
interessanti per la forma e il colorito orchestrale), parve affievolirsi a
partire dagli anni Trenta, quando Pfitzner dovette accorgersi a poco a poco di
aver perso la sua battaglia. L’adesione al nazismo fu una colpa grave per un
artista del suo calibro, e non soltanto per quello che essa rappresentò agli
occhi del mondo e per le conseguenze che ebbe sugli ultimi anni della sua vita
e oltre, ma soprattutto perché significò l’abdicazione a tenere alto il tiro
del suo autonomo impegno di guardiano della musica: nell’illusione di veder
imposti con la forza dal potere quei principi che avevano segnato il disperato
tentativo di rimanere fedele a un mondo fatalmente scomparso e di contribuire
alla sua sopravvivenza.