1 Febbraio 1994
Britten insegna il canto della pietà
Non è un requiem
della guerra, o sulla guerra, ma una liturgia per coloro che pur essendo vivi
sono già morti. Una liturgia che per metà abbraccia la fede, per metà la
contesta. L’equilibrata esecuzione di Gardiner
Ci sono opere
che, nonostante la loro bellezza, non avrebbero mai dovuto nascere, poiché ciò
che rappresentano è terribile, terribile la causa che le ha originate. Non c’è
opera d’arte che valga queste cause e ne possa offrire una consolazione. Al
massimo, ciò che può essere detto è la pietà. Un modo di riempire,
ribellandosi, il vuoto del silenzio. È questo il significato più vero del War Requiem di Benjamin Britten: un capolavoro a cui
sarebbe arduo rinunciare, e che è difficile ascoltare senza deprimersi prima,
commuoversi poi. O commuoversi prima, deprimersi poi.
Il War Requiem non è un requiem della guerra, o
sulla guerra, ma una liturgia per coloro che pur essendo vivi sono già morti. Una
liturgia che per metà abbraccia la fede, per metà la contesta. Il ricordo dei
morti vive nella preghiera del testo latino della messa, ma accanto ad esso si
leva, nella lingua moderna, la voce dei morti che chiede ragione ai vivi e non
accetta quel compianto: vuole non solo ricordare ma anche sapere, testimoniare,
accusare. Le parole del poeta inglese Wilfred Owen ammoniscono, invitano a dire
la verità: come è potuto accadere tutto ciò, come potrà ancora e comunque
accadere? Il coro e la grande orchestra tacciono. Sarebbe menzogna, se
rispondessero. Le voci bianche dei ragazzi, giungendo come immacolate da lontano,
si incaricano di liberarli da quella pudica afasia: «Riposino in pace, amen». Riposino
i morti, riposino con loro i vivi. Ma non dimentichino.
La forza di verità del War Requiem di Britten
non sta tanto nella denuncia di una aberrazione (è aberrazione la guerra; sono
aberrazioni la violenza, la brutalità, la barbarie; ma è aberrazione la morte
prodotta volontariamente dagli uomini su altri uomini?) quanto nella
accettazione di un destino di dolore e di pianto. Poche volte la musica ha
rappresentato con altrettanta evidenza e oggettività una situazione di fatto:
altro che protesta, altro che vittoria del bene sul male. Perfino la ribellione
cede a poco a poco al riconoscimento che solo la pietà può redimere l’uomo
dalle sue colpe. Ed è una pietà che in Britten diviene sentimento universale,
valore ultimo dell’umanità. L’unico che possa accostarla, fin dove è possibile,
alla divinità, restituendo un senso alle parole della preghiera.
Il War Requiem è un’opera così scoperta, così
perfettamente realizzata in ogni dettaglio e così coinvolgente nelle parti e
nell’insieme da non dover essere interpretata, ma semplicemente eseguita. Tradirne
lo spirito è impossibile, difficile mutarne il segno, il tono fondamentale;
certo, è possibile accentuarne in alcuni momenti l’enfasi, o viceversa
registrarne impassibilmente il decorso, lasciandola parlare da sé: il calore
può essere attizzato come fiamma, o raffreddato perché bruci più
sotterraneamente, per così dire più lucidamente. L’esecuzione che ha dato
spunto a queste note è diretta da John Eliot Gardiner con l’orchestra del
Norddeutscher Rundfunk, il Monteverdi Choir, il coro della Radio tedesca di
Amburgo, quello dei ragazzi di Tölz: solisti di canto Luba Orgonasova, Anthony
Rolfe Johnson e Boje Skovhus. È una buona esecuzione del secondo tipo:
controllata, equilibrata, corretta. Non toglie niente e niente aggiunge alla
partitura. Si limita appunto ad eseguirla. Non regge il confronto con quella
diretta da Britten stesso, che d’altronde è inconfrontabile con qualunque altra.
Ma intanto serve a far conoscere l’opera, a farla circolare. A creare, per chi
non ce l’avesse ancora, un posticino in cui conservarla, nell’anima.
Britten, War Requiem,
Orgonasova, Rolfe Johnson, Skovhus, NDR-Sinfonieorchester, The Monteverdi Choir,
NDR-Chor, Tölzer Knabenchor, dir
Gardiner, Deutsche Grammophon, 437 801-2 (2 cd).