13 Luglio 2004
Franz Schubert – Le congiurate (La guerra domestica), Singspiel in un atto di Ignaz Castelli dalle commedie Lisistrata e Ecclesiazuse di Aristofane
Schubert e l’illusione
del teatro
“Ancora una volta ho
composto un’opera per nulla”
(Franz Schubert, lettera del 16 giugno 1823)
Antonio Salieri, quando lo ebbe come allievo, svezzò il
giovane Schubert a suon di canoni e Metastasio. Non aveva dubbi sul fatto che
il successo di un compositore a Vienna dipendesse dalla sua capacità di
affermarsi nel teatro; e a questo fine niente avrebbe giovato più della antica,
sana ricetta italiana: recitativi e arie classicamente congiunti, in saldo
equilibrio tra chiarezza della forma e forza del sentimento. Salieri non poteva
prevedere quali sviluppi avrebbe avuto la parabola creativa di Schubert nel
teatro. Alla sua evoluzione concorsero inclinazioni personali e condizionamenti
esterni, di natura ambientale e storica. Schubert, a differenza di Mozart, non
sentì mai il fascino del teatro inteso anche come modello e forma di vita, che
necessariamente imponeva presenza attiva come realizzatore, confidenza e
disponibilità con cantanti e interpreti, nonché una buona dose d'intuizione e
di furbizia per affrontare, schivandole, insidie di ogni genere. Schubert amava
il teatro, ma non il suo ambiente, e se ne tenne rigorosamente in disparte,
frequentandolo più che altro da spettatore. La sua visione era di un altro
tipo, più sfumata e idealizzata, quasi distaccata dalla realtà viva delle
abitudini e delle convenienze teatrali. Forse conosceva troppo poco gli
intrighi passionali e le schermaglie amorose tra i sessi per essere in grado di
trasferirli sulla scena; e quel che invece conosceva bene - il valore
dell'amicizia, il senso dell'onore e della fedeltà, ma anche la violenta
eruzione di pulsioni oscure e segrete - non poteva rappresentarlo che
velatamente, o elevarlo su un piano più astratto, simbolico. Così, del mondo
del teatro non colse mai pienamente né l"`immoralità della commedia"
né la "moralità della tragedia", limitandosi a sfiorarle di tanto in
tanto, per improvvise illuminazioni, e a vagheggiarne una trasfigurazione
fiabesca.
Sotto altri aspetti, più pratici, faceva difetto a Schubert
qualsiasi attitudine a trattare con gli impresari, a fronteggiare gli inghippi
burocratici, a parare i colpi di bassa lega, ad aggirare i divieti della
censura: insomma a elaborare tattiche e strategie che gli consentissero di
imporre le proprie regole, ammesso che ne avesse, o anche soltanto di fiutare
il vento, per capirne la direzione. Né maggior destrezza mostrò con i
librettisti, reperiti per lo più, quasi per un bisogno di protezione,
nell'ambito della cerchia degli amici. Eppure, nonostante tutto questo, Schubert
non smise mai di coltivare l'illusione di affermarsi nel teatro. Fra il 1811 e
il 1827 terminò undici lavori drammatici e altri sette ne lasciò incompiuti:
una ventina di titoli (contando anche gli abbozzi) in una quindicina d'anni non
sono pochi, neppure per quei tempi. Che poi solo quattro, e neppure i più
importanti, giungessero a essere rappresentati lui vivente, è l'altra faccia,
la più amara, di quella illusione.
I lavori drammatici di Schubert si dividono in due categorie: Singspiel e opera propriamente detta. Più esattamente. Tra i lavori portati a termine sei sono i Singspiele (compreso Des Teufels Lustschloss, nel genere della Zauberoper) e due le opere, entrambe in tre atti: Alfonso und Estrella, che è una "grande opera" eroico-romantica, e Fierrabras, un'opera di tipo eroico-cavalleresco. Ma se guardiamo ai lavori incompiuti, il rapporto si ribalta: due Singspiele contro sei opere, tutte di grande impegno, e sempre intese come momenti di svolta. Questa proporzione rivela l'ambizione di uscire dai confini del Singspiel viennese per affrontare orizzonti più vasti e tentare anche qualche strana bigamia. Come nel caso di quel Graf von Gleichen [Il conte von Gleichen] su libretto dell'amico Bauernfeld che, iniziato il 19 giugno 1827, un anno prima della morte, avrebbe dovuto essere, nel dominio del teatro, l'imboccatura di una strada nuova, una sorta di fusione del Singspiel orientaleggiante con l'opera nazionale tedesca.
Fra tanti tipi, Schubert non operò mai una scelta né impose
un proprio modello – come fece invece nel Lied –, continuando a vagheggiare
un'idea del teatro tanto più utopica quanto più in apparenza accondiscendente
ai gusti del momento. E ciò, unito a una mancanza di frequentazione del mondo
internazionale dell'opera (mai un'esperienza d'ascolto fuori della vetrina di
Vienna, che rimase il suo punto di riferimento), aveva complicato
maledettamente le cose. Anche perché Vienna era una cortigiana che cambiava
rapidamente i suoi favori e si accendeva per sempre nuove apparizioni. Una di
queste, destinata a incidere profondamente sul costume teatrale, era stata
quella di Rossini, a partire dal 1816 e con ondate crescenti tra il 1820 e il
1822. Essa aveva provocato una vera e propria infatuazione per l'opera
italiana, innescando un notevole cambiamento di abitudini nel pubblico
dell'opera e riducendo ancor più lo spazio vitale del piccolo mondo familiare
del Singspiel tedesco, a cui Schubert sembrava esser rimasto fino ad allora
ostinatamente fedele. Quando il delirio per Rossini e per l'opera italiana fu
sostituito dal clamore suscitato dal Freischütz, giunto a Vienna nel marzo del
1822, Weber rappresentò per Schubert una autentica speranza. Sbagliò però a credere
che Weber potesse aiutarlo facendo rappresentare a Dresda, dov'era direttore,
un'opera evidentemente estranea ai suoi interessi come Alfonso und Estrella (solo il cuore generoso di Liszt poté
rischiare di proporla, trent'anni dopo, a Weimar, in una versione peraltro
assai sforbiciata dai tagli); e soprattutto mancò grossolanamente di tatto
nell'esprimere le sue riserve sull'Euryanthe,
allorché questa venne battezzata sotto la direzione dell'autore a Vienna il 25
ottobre 1823. Schubert, che pure cercava un appoggio da Weber, dichiarò
candidamente che la nuova opera gli pareva "vistosamente carente di
melodie" e priva di quella "grazia" che tanto lo aveva invece
entusiasmato nel "delicato e intimo Freischütz". Weber si offese e
non perdonò questa fredda esternazione. Naturalmente dell'opera di Schubert non
si fece più parola. Eppure Euryanthe,
magari con qualche ricchezza melodica in più, era in quel momento quanto più si
avvicinasse alla tipologia operistica schubertiana.
La domanda sorge spontanea: perché la produzione teatrale di
Schubert si risolse in una serie micidiale di delusioni e di fallimenti? La
risposta chiama in causa in primo luogo i quattordici librettisti che si
avvicendarono nella collaborazione con il musicista, imputando loro, quasi senza
eccezioni, quella mancanza di "senso del teatro", quella inefficacia
drammaturgica e quella fragilità poetica che finivano per indebolire anche una
musica singolarmente bella. Non bisogna però dimenticare che nella maggior
parte dei casi (soprattutto in quelli che più lasciano perplessi e che
coinvolgevano i suoi amici) Schubert si mostrò pienamente soddisfatto tanto
della scelta dei soggetti quanto dei testi. In altri termini fu lui, Schubert,
ad accettare quei libretti dopo essersi innamorato di una situazione magari
promettente. E non risulta che, come era capitato non solo all'incontentabile
Beethoven ma perfino all'esperto Mozart, si lamentasse della mancanza di
soggetti degni e di librettisti adeguati.
Vivendo ai margini del teatro e coltivando un'opinione
quantomeno vaga circa il funzionamento dei suoi meccanismi, Schubert non considerò
mai la creazione di un'opera come qualcosa che esulasse da un semplice e
familiare lavoro artigianale o richiedesse attenzioni speciali anche nel
prevedere, nell'agire, nel pretendere, nel soffrire. Si fidava dell'esperienza
altrui, senza pensare neppure lontanamente di intervenire nella drammaturgia e
nella stesura dei testi: difatti non lo fece mai. A lui non restava che
comporre la musica.
La musica, appunto. Che diviene in se stessa, e per se
stessa, la ragione primaria del suo teatro. Il teatro di Schubert non
rappresenta, evoca. Ambienti, situazioni, stati d'animo sono chiamati dalla
Più che mai convinto che fosse giunta la sua ora, nel 1822,
sull'onda dell'entusiasmo dopo la ripresa del Fidelio con la Schröder-Devrient e forse stimolato dall'annuncio
che Beethoven pensava di scrivere una nuova opera, mentre Weber trionfava a
Vienna con Der Freischütz, Schubert
mise in cantiere (e vi lavorò alacremente, benché gravemente malato, per tutta
la prima metà del 1823) un nuovo Singspiel, Die
Verschworenen [Le congiurate],
libero adattamento dalla Lisistrata
di Aristofane. Il libretto, di Ignaz Franz Castelli, già librettista di corte
presso il Teatro di Porta Carinzia, incontrò subito il divieto della censura,
anche dopo che il suo titolo era stato mutato nel più inoffensivo Der häusliche Krieg [La guerra casalinga]. Schubert decise
allora di lasciar perdere, anche perché nel frattempo si era affacciato il
progetto di un'altra opera, assai più importante, Fierrabras, per il Teatro di Porta Carinzia. La musica, interamente
compiuta, fu riposta in un cassetto e non venne più toccata fino alla morte
dell'autore, e assai oltre: ancora una volta aveva composto un'opera per nulla.
Quella che ascoltiamo oggi è la prima rappresentazione assoluta per l'Italia.
La trama dell'atto unico, spostata come ambientazione dalla
Grecia antica all'epoca delle crociate, è assai esile e lineare. Nel castello
dove sono state lasciate sole le donne, indispettite per la continua assenza
degli sposi perennemente in guerra, ordiscono segretamente una congiura
consistente nello sciopero dell'amore quando gli uomini faranno ritorno a casa.
Avvertiti della congiura dal paggio Udolin, gli uomini ricambiano pan per
focaccia, e al loro ritorno si mostrano inaspettatamente freddi e scostanti
verso le loro spose. Per tutta risposta le donne decidono allora di armarsi e
di partire con loro per la guerra. Ma a questo punto si svela l'imbroglio:
tutti decidono di rinunciare alla guerra e di riunirsi stabilmente in pace.
L'amore ha vinto, e nel lieto fine viene celebrata la forza della pace al di
sopra di ogni guerra.
Gli undici numeri musicali della partitura, inframmezzati da
un dialogo parlato vivace e spigliato, sono di elevata bellezza e ,varietà,
degni della miglior vena di Schubert. Si tratta di ariette, una romanza,
duetti, insiemi e cori, questi ultimi concepiti nello stile durchkomponiert. Si ravvisano graziose
reminiscenze italiane (Rossini) e dell'opéra-comique
francese, allora di moda a Vienna. Lo spirito del Lied è continuamente
presente, nella leggiadria del canto e nella preziosità della strumentazione.
Spicca in tale contesto la splendida romanza in fa minore di Helene (n. 2),
arricchita dalle volute del clarinetto concertante. Nel loro complesso questi
pezzi mostrano quanto Schubert avesse affinato la sua tecnica e il suo stile,
anche senza rinunciare alle convenzioni esterne del Singspiel. E una musica che
si dipana con leggerezza e brio, assumendo un carattere più marcato e
consapevole di parodia e anticipando in più tratti lo spirito pungente
dell'operetta viennese, se non addirittura della commedia offenbachiana. Nei
suoi toni ora acri ora malinconici ora surreali (vi compare perfino una festosa
polacca in do maggiore nella scena delle donne riunite in parlamento, n. 3),
tocca le corde più sensibili del sogno e della nostalgia, evocando atmosfere
immaginarie e orizzonti virtuali di accattivante modernità. Il coro della
congiura (n. 4), snodo centrale dell'opera, è un lungo brano strutturato
secondo la tipica alternanza schubertiana di modo minore e modo maggiore, e ha
molti punti di contatto con la coeva produzione strumentale. Quanto
all'Ouverture, Schubert non ne compose alcuna, forse riservandosi di farlo alla
fine in prossimità dell'esecuzione, com'era consuetudine. Per questa
rappresentazione senese si è optato per la scelta dell'Ouverture
dell'"opera magica e naturale" Des
Teufels Lustschloss [Il castello
delle delizie del diavolo], composta nel 1813-1814 sotto la supervisione di
Salieri, che figura dunque all'inizio, rispettando un'abitudine del tempo e
seguita altrove anche da Schubert.
Teatro come sogno, come luogo dell'immaginario, come
astrazione fantastica. Dové non è importante tanto chiedersi che cosa sia causa
e cosa effetto ma smemorarsi nel tempo ed errare nello spazio infinito in un
continuo perdersi e ritrovarsi. Le storie dei cavalieri e dei paladini di
Schubert si allontanano dal piccolo mondo quotidiano, dove pure hanno le loro
radici esistenziali, per immaginare il grande mondo senza confini e svanire da
ultimo, quasi liberandosi dalla terra, nell'illimitato, dove tutto idealmente
si armonizza in serenità e pace. Ciò che le caratterizza è la varietà di una
drammaturgia musicale addensata, bloccata, eccentrica, che si muove per
rimanere ferma, quasi elidendosi nella massima concentrazione, e di lì sfumare
in un quadro per assurdo edificante. L'illusorio, il fiabesco sono dati come
elementi ex re del teatro: alla musica non occorrono argomentazioni logiche, né
spiegazioni razionali per motivarli. Non occorrono neppure catastrofi di eroi o
spaccati di vita reale. Nel sommo artificio della finzione, il teatro per
Schubert non deve essere né tragedia né commedia, ma sogno, e culminare
necessariamente, come accade senza eccezioni in tutte le sue opere, in un lieto
fine tanto più meraviglioso perché inverosimile. Un teatro senza feriti e senza
morti. Un teatro simbolico, diverso dalla vita, ma senza miti.
Basterebbero i Lieder a dimostrare quanto fosse enorme il talento drammatico di Schubert: ma per la singola scena, per la visione metaforica, non per la progressione e la parabola che danno sostanza a un dramma sulla scena. Un teatro senza dramma è un teatro imperfetto, almeno nell'Ottocento. Il teatro di Schubert sembra piuttosto anticipare alcune tendenze del Novecento nella discontinuità drammatica, nel puro gioco delle apparenze, nel piacere del travestimento, nella aperta e voluta simulazione che oppone lo scherzo e l'irrealtà alla serietà e alla veridicità della vita. Vengono in mente le parole di Ferruccio Busoni sull'essenza dell'opera.
L'opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell'innaturale
come della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare
un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno
deformante: dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale
La giustificazione del teatro di Schubert con l'estetica
novecentesca sarebbe tuttavia un controsenso. Mancano del tutto i presupposti fondamentali
del gesto problematico, della provocazione intellettuale, nonché del distacco
critico da tutta un'epoca. Per questo, e nonostante d'altro canto vi siano
anticipate tecniche narrative che potremmo accostare non solo al cinema ma
addirittura alla sophisticated comedy,
alla scena virtuale e multimediale, un recupero del teatro di Schubert in senso
metateatrale o addirittura "antiteatrale", in prospettiva moderna,
appare, se non impossibile, difficile.
Schubert si identificava pienamente con il teatro della sua
epoca, che era però un'epoca di passaggio e di trasformazioni. In mezzo al guado
non sentì la necessità di imporre una scelta che lo esponesse
L'illusione del teatro fu per Schubert un teatro
dell'illusione, una cornice al posto del quadro. Esiste un teatro musicale che
si realizza sulla scena (Mozart, Verdi) o dentro la scena (Wagner), e uno
Gérard Korsten /
Orchestra della Toscana, Coro Guido Monaco di Prato
61° Settimana Musicale
Senese, Fondazione Accademia Musicale Chigiana – Siena, 2004