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1 Ottobre 1992

La mutazione genetica dei festival europei

 

Gérard Mortier ha sostituito a una condizione di stabilità nella tradizione il dinamismo dell’instabilità proprio della nostra epoca. Si sta combattendo la battaglia decisiva per individuare nuovi assetti.

 

«Ciò che più mi fa arrabbiare, o se vuole mi offende, sono gli attacchi di coloro che prendendo a pretesto le mie scelte artistiche intendono coprire interessi di potere che nulla hanno a che fare con l’arte. Sono i mercanti vecchi e nuovi che vorrebbero spadroneggiare a Salisburgo, e che mi accusano di profanare il tempio. Ma a questa danza attorno al vitello d’oro io non voglio partecipare, tanto meno alle loro condizioni. Per me Salisburgo deve tornare ad essere un centro di cultura e di produzione artistica. Se possibile, additare un nuovo modello di festival per il Duemila».

Gérard Mortier, l’uomo più chiacchierato dell’estate musicale appena conclusa, non ha davvero l’aria né di arrabbiarsi né di offendersi. È un primo della classe nato, e non lo nasconde, con atteggiamenti francamente non sempre simpatici: ma sa quello che vuole, e ha il pregio di parlare con chiarezza (troppa, come qualcuno gli rimprovera). È perfino superfluo chiedere a chi alluda, è lui stesso a prevenire la domanda:

«Alla insofferenza delle multinazionali del disco e delle agenzie abituate a fare i loro affari sfruttando quella cassa di risonanza che è sempre stato il Festival di Salisburgo si è aggiunta ora la protesta dei commercianti e degli albergatori, che mi accusano di allontanare un certo pubblico a loro dire tradizionalista e conservatore, nonché ricco. Il bilancio della vendita dei biglietti dimostra che non c’è stato affatto un calo sensibile, anzi; che poi questo pubblico non frequenti esclusivamente gli alberghi e i ristoranti di lusso, non è affar mio. Il mio compito come direttore artistico è soltanto quello di fare una programmazione all’altezza di Salisburgo, in base a una idea precisa della musica come cultura, stimolo alla conoscenza e alla riflessione critica».

Eppure è proprio questo il punto sul quale Mortier (e i suoi collaboratori più stretti, Landesmann e Wiesmüller) sono stati duramente attaccati anche da coloro che non abbiano interessi personali: sul ruolo e sul destino del Festival.

In soldoni, i capi di accusa sono due. Il primo riguarda le scelte dei programmi, che abbandonano le strade consolidate della tradizione austro-tedesca per spostare l’asse sulla musica francese, slava, italiana, ungherese, americana: privilegiando i classici del Novecento e gli autori contemporanei. Il secondo contesta l’accento posto in modo marcato su proposte registiche e scenografiche radicali, che hanno aperto le porte alle tendenze più eccentriche del cosiddetto teatro di regia moderno, soprattutto tedesco. Su tutto aleggia il fantasma aureolato di Karajan, il grande predecessore, la gloria del Festival di Salisburgo: la gloria del mondo musicale ma di Salisburgo in ispecie. Che cosa risponde Mortier?

«Se Karajan fosse ancora vivo, probabilmente io non sarei qui, o forse mi comporterei in modo diverso. Ma Karajan non c’è più, e non credo, con tutto il rispetto, che la sua grande figura carismatica possa essere sostituita da coloro che si sono proclamati, a torto o a ragione, suoi esecutori testamentari. Non mi pare che la tradizione austro-tedesca da sempre celebrata a Salisburgo sia in contrasto con un allargamento del repertorio verso altre scuole o esperienze europee e mondiali. Per trovare un nesso, si doveva prima far conoscere queste altre espressioni, e poi tirare le somme: ho impostato un lavoro triennale, e solo alla fine di questo periodo ne vedremo i risultati. Mi sembra che Salisburgo non possa rimanere una cittadella arroccata sui suoi pur alti valori (del resto oggi ignobilmente commercializzati e sviliti) ma debba aprirsi al mondo della musica in tutte le sue manifestazioni autenticamente artistiche: prima riceverle, poi armonizzarle in una unità che rilanci il senso stesso della sua funzione come centro di cultura, dinamicamente. Salisburgo può realmente essere il modello del festival del Duemila, come lo è stato, ma in altre condizioni, nel nostro secolo. In questa prospettiva abbiamo chiamato qui Boulez, dato spazio a Messiaen, e cominciato a ripensare le nostre radici, che non sono in un passato lontano più o meno consolatorio ma nel Novecento, di cui facciamo ancora parte. Non lo abbiamo fatto con l’intenzione di scoprire l’acqua calda, come ha detto qualcuno, ma perché ci sembrava necessario che Salisburgo, proprio Salisburgo, entrasse nel vivo di ciò che è accaduto nella musica moderna e contemporanea, e che ancora dovrà accadere. Quanto alle regie, io sono convinto che lo spettacolo d’opera oggi non possa prescindere da un’interpretazione scenica e registica che rispecchi la nostra epoca e guardi coi nostri occhi. Ciò non significa affatto andare contro la musica, ma interpretare anche la musica alla luce di un’idea consonante con la nostra sensibilità, con i nostri mezzi, con la nostra capacità di comprensione e con i nostri bisogni intellettuali. Da questo punto di vista non sono affatto contro l’irruzione del teatro di idee e di regia anche nell’opera: mi pare anzi necessario. Per me quella degli Herrmann nella Clemenza di Tito è la più bella interpretazione che abbia mai visto di un’opera così problematica. Un capolavoro».

È probabile però che Mortier cominci a non sottovalutare proprio il nodo centrale di queste appassionate e appassionanti convinzioni: non solo lo specifico delle realizzazioni musicali. Il suo tallone d’Achille è chiaramente rappresentato dal fatto che egli non proviene dalla musica, ma dal teatro; e abbia costruito la sua carriera con proposte tra lo sperimentalismo e l’avanguardia. L’ipotesi di travasare a Salisburgo quelle esperienze, chiamando gli stessi realizzatori (Bondy, Herrmann, Sellars, e via dicendo), non ha portato a indicare vie nuove al tipo di teatro che egli sostiene, ma ha per così dire ratificato una serie di stereotipi già noti e sperimentati, in modo perfino riduttivo. In altri termini, a Salisburgo Mortier non ha suffragato nulla di nuovo, ha solo spazzato via vecchi modelli per sostituirne altri, non nuovi, ormai dominanti in qualunque teatro del mondo. Sta qui la contraddizione tra la decisa volontà inventiva di cambiare per ineluttabile forza del tempo e la ostentata parzialità delle sue scelte a senso unico in fatto di registi. Paradossalmente, nel loro genere queste realizzazioni erano altrettanto scontate quanto quelle del passato che detesta.

Ma questo è solo un aspetto particolare del problema. È chiaro che a Salisburgo si combatte non solo una lotta tra opposti schieramenti ideologici ma anche una battaglia decisiva per individuare un tipo di festival adatto a esprimere contenuti per ora forse più d’immagine che di sostanza e di qualità. E dunque il caso, per quanto emblematico, travalica i suoi confini per diventare generale. Quali sono i referenti? La critica, sempre più faziosa, il pubblico, sempre più disorientato, gli interpreti, sempre più attenti ai loro interessi personali, gli autori, centrifugati in un’immensa lavanderia industriale? A una condizione di stabilità (per come la si giudicasse, solida) Mortier ha sostituito il dinamismo dell’instabilità proprio della nostra epoca, facendone la sua bandiera: sotto questo profilo, ha già vinto la causa. Un cambiamento a Salisburgo non s’imponeva, era semplicemente già avvenuto: tutto quello che Mortier ci ha presentato quest’anno aveva un po’ l’aria di essere già accaduto. Se non a Salisburgo, privato della sua aura, altrove.

Il dibattito, si diceva una volta, è aperto. Ci sia permessa una mozione d’ordine: non disquisiamo in astratto di Arte e di Cultura, termini sui quali ogni anima bella s’accorderà facilmente, e proviamo a chiederci che cosa vorremmo fosse in concreto un festival musicale, fissando intanto qualche punto e virgola.