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1 Gennaio 2000

Un Beethoven ipnotico, smaterializzato

 

L’incisione dei cinque Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, realizzata al Musikverein di Vienna tra il dicembre 1997 e il febbraio 1998 da Alfred Brendel e Sir Simon Rattle con i Wiener Philharmoniker, è stata accolta dalla critica internazionale, specializzata e non, come un grande avvenimento. Nel libretto che accompagna l’elegante box, accanto alle immagini in pose stravaganti dei due artisti, sono riportati ampi stralci delle recensioni ai concerti che hanno preceduto la registrazione: vi si possono leggere, in una curiosa forma di promozione anticipata, espressioni non meno che osannanti, quasi che non avessimo mai sentito prima queste opere così suonate – anzi “so musiziert” – dal vivo e in disco. Sarà. Salvo errore, però, il risultato, pur attestandosi su alti livelli, non è così uniformemente eccezionale come si dice. Ma soprattutto dispiace che due artisti della serietà e del calibro di Brendel e Rattle si siano prestati a un’operazione dai contorni commerciali così smaccati. Giacché si capisce che stupire, avvalendosi di risultati artistici talvolta ottimi, talaltra meno, è l’obiettivo di questa produzione.

Cominciamo da Brendel. Rispetto alle precedenti incisioni realizzate con Bernard Haitink e James Levine, la sua visione dei Concerti di Beethoven è rimasta sostanzialmente immutata, ossia di altissimo profilo, nel Terzo e nel Quinto, si è ancor più approfondita nel Quarto, da sempre il suo prediletto, e ha invece un po’ cambiato rotta nel Primo e nel Secondo, diventando per così dire sovrainterpretata. Un che di artificioso, di eccessivamente intellettualistico domina qua e là nella resa di queste pagine, manifestandosi in leziosi slentamenti e accelerazioni di tempo, eccessi di differenziazione dinamica, sovraesposizione dei particolari: pur rimanendo il suono sempre bello ed equilibrato, Brendel sembra compiacersi della sua bravura e della sua finezza, e ammiccare continuamente con esagerata complicità a un Beethoven un po’ birichino e un po’ accademico. La sua nuova idea di questi Concerti giovanili richiama una sorta di galanteria settecentesca, assai ricercata anche da Rattle all’insegna di una fantasiosissima sprezzatura ornamentale. Non si può negare il fascino di questa visione, anche se il sospetto di una certa intenzionalità non la rende sempre spontanea come vorrebbe.

Tanto col Terzo che col Quinto Concerto si entra in una dimensione di tutt’altro genere, e la qualità complessiva dell’esecuzione sale vertiginosamente. Qui si può parlare di una certa tendenza a mitigare l’aspetto eroico, a smorzare l’energia marziale e a liricizzare nell’intimo l’espressione, puntando semmai il peso sulla tensione in sé del suono e sulla sua emersione negli snodi cruciali e nei culmini degli sviluppi. Questi accenti perfettamente rilevati e soppesati rendono non solo originale ma in alcuni momenti davvero stupefacente la trama del Quarto Concerto, che si svela come il concerto che avrebbe potuto scrivere Schubert in un momento di ipnosi beethoveniana. E qui Rattle fa suonare i Wiener con magnifica libertà e quasi con virtuosismo smaterializzato, rendendo convincenti – rispetto sia all’identità dell’orchestra sia alle sue intenzioni personali – la quasi assenza del vibrato e le alchemiche differenziazioni negli attacchi e nel sostegno del suono. È il vertice di questa realizzazione, che dimostra come le strade dell’interpretazione siano infinite ma non procedano evolutivamente.

 

Beethoven, I cinque Concerti per pianoforte e orchestra, pf Brendel, dir Rattle, Wiener Philharmoniker. Philips, 462 781-2, (3 cd)