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1 Novembre 2003

Carlos Kleiber, sfuggente

 

«No, caro Enrico, credimi, il Mahler non è un artista serio. La sua musica non ha alcuna personalità né genialità. È un miscuglio di una italianità uso Petrella, Leoncavallo accoppiata all’enfasi di Čajkovskij, musicale ed istrumentale, con ricerca di bizzarrie straussiane – pur ostentando un sistema opposto – senza avere di questi due ultimi i lati geniali. Ad ogni passo cadi in un luogo non  comune ma triviale». Non è l’unico dei giudizi velenosi e un po’ sgradevoli che Arturo Toscanini affidò alle sue lettere, pubblicate da Garzanti in italiano con un orrendo titolo ad effetto (Nel mio cuore troppo d’assoluto; l’originale inglese suona semplicemente The Letters of Arturo Toscanini). Contributo importante alla conoscenza di una delle personalità più ammirate della musica mondiale, addirittura un mito, ma tutto sommato alquanto deludente e frustrante se commisurato appunto alla grandezza del musicista, interprete comunque imprescindibile nella storia della direzione d’orchestra.

L’uomo Toscanini che emerge da queste lettere è un piccolo, grande uomo, suscettibile, invidioso, irascibile, egoista, fedifrago: egocentrico e autoreferenziale al massimo, come se tutto quel che lo circondasse esistesse solo ed esclusivamente in funzione sua. Maligno verso i colleghi musicisti, paragonati spesso a cani, testardo nelle sue idiosincrasie, ingrato verso le istituzioni, anche quando queste si facevano in quattro per esaudire i suoi desideri, non di rado utopici. Si obietterà che tutto questo va visto in relazione ai fini che Toscanini perseguiva, che erano quelli, più che di un riformatore, di un vero, fanatico rivoluzionario. Ma la stessa intransigenza in lui, un vero e proprio punto d’impegno, sembrava abbattersi senza distinzioni su cose fondamentali e su cose futili, quasi ad estendere ad ogni espressione della realtà il motto che più amava, e che significativamente ricorre spesso nelle lettere, anche in forma di telegramma: «La schiena si curva quando l’anima è curvata».

Tra le cose fondamentali ci fu senza dubbio l’opposizione alle dittature, manifestata non a parole ma a fatti con la decisione di abbandonare l’Italia fascista e di non dirigere più a Bayreuth e, dopo l’annessione dell’Austria, a Salisburgo. Donde l’esilio (dorato) in America. Decisioni senza dubbio difficili, pagate a caro prezzo con l’interruzione di una carriera europea non meno che fulgida, ma prese con assoluta determinazione. Si ha però l’impressione, senza voler sminuire la portata di queste scelte, che esse nascessero non da una valutazione politica cosciente, bensì da insofferenza verso un sistema che Toscanini non sopportava nelle sue esteriorità, nel suo provincialismo, nel suo vacuo apparire: lo stesso famigerato episodio degli schiaffi di Bologna, com’è ricostruibile dalle lettere, dimostra che Toscanini non fu guidato da una posizione di principio, ma semmai da una questione artistica, da una volontà – sacrosanta – di mettere l’arte al di sopra della politica. Ossia di mettere se stesso al di sopra di tutti e di tutto. Lo sdegno che ne seguì non era il risultato di una offesa a un’idea, bensì alla sua persona.

Una lettura psicanalitica delle lettere rivelerebbe probabilmente lati oscuri, sogni inquietanti e atroci rimozioni. L’aspetto più intrigante è lo scandaglio di una natura che, se pur ostentava sicurezza e orgoglio, era nell’intimo fragile, infelice, estremamente sola e vulnerabile. La corazza che gonfiava il petto di Toscanini era anche un modo di difendersi, di indicare una meta posta al di sopra di ogni realtà concreta: tipico l’alternarsi nelle sue esternazioni di autoglorificazione e di autodenigrazione, di consapevolezza del suo valore e di insoddisfazione per i risultati ottenuti, di esaltazione e di depressione. La spada brandita e fatta mulinare contro tutto e contro tutti poteva anche essere il segnale di una resa incondizionata alla pressione, alla difficile integrazione di ideale e reale, e ancor più di momenti d’estasi artistica e di ricadute nella banalità del quotidiano. Anche nei suoi rapporti con le donne dietro l’onnivoro ricercatore di piaceri, l’amante menzognero e pronto a tutto pur di avere successo (ottimo elaboratore nelle lettere di frasi fatte e luoghi comuni), si celava un carattere quasi fanciullesco, per non dire infantile. L’ottimo curatore del volume, Harvey Sachs, “bidello” di Busseto prima e dell’Isolino poi, mette in guardia dal dare troppo rilievo (e d’assoluto) agli entusiasmi amorosi del protagonista, focalizzando invece l’attenzione sul suo “far musica” e il suo “essere”. E per quanto poco ci dica il libro sul suo “far musica”, dietro il suo “essere” scostante e umorale si percepisce che l’unica ragione di vita e l’unica giustificazione erano, in fondo, appunto, la musica.

 

Nel mio cuore troppo d’assoluto. Le lettere di Arturo Toscanini a cura di Harvey Sachs, Garzanti, Milano 2003, 636 pp., e 28,00