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1 Febbraio 2005

Ludwig van Buscaroli

 

Un libro che ci vede benissimo quando sono finalmente accecate le deliranti furie ideologiche del saggista, che vogliono “liberare” il compositore dal “giacobinismo” e dall’usurpazione rivoluzionaria e farne un atrabiliare cantore del cipiglio germanico.
Il suo capolavoro assoluto? La Missa solemnis

Dalla lettura delle 1.360 pagine (indici e cataloghi compresi, fondamentali) del Beethoven di Piero Buscaroli si esce come spianati da una schiacciasassi. Non tanto per la mole del volume, reso accattivante e addirittura agevole da una scrittura tanto magistrale quanto chiara, quanto per il martellamento continuo, ossessivo, scandito da insulti, reprimende, anatemi, sarcasmi, irrisioni equamente distribuiti fra interpreti ignoranti e musicologi inetti, con il quale l’autore dà voce alle sue tesi. Chi conosce Buscaroli non foss’altro per i suoi lavori su Bach e Mozart, e lo ammira non ricambiato, sa quanto tagliente e radicale possa essere il suo pensiero, nel quale non vi sono vie di mezzo o sfumature, ma soltanto granitici blocchi o bianchi o neri.

Annunciato come la messa a fuoco della “nuova immagine che mancava”, fieramente teso a compiere un lavoro di revisionismo a trecentosessanta gradi, Buscaroli rilegge le fonti e le testimonianze più disparate in una luce nuova e totale, traendone aggressive e perentorie conclusioni. Al punto che questo suo libro, quasi per una sorta di fatale, lunga immedesimazione, assomiglia più a una proiezione autobiografica che a una oggettiva disamina del soggetto in questione (del resto, la scultura di Max Klinger messa in copertina, un Beethoven particolarmente corrusco, sembra quasi l’autoritratto di Buscaroli stesso). Ma quali sono queste tesi? Per esempio che Beethoven non fu mai illuminista, e neppure giacobino, ma anzi antifrancese, un autentico nazionalista profondamente tedesco e un patriota accanito, divenuto suo malgrado vittima – e giù contumelie – di uno sciagurato umanitarismo buonista che ha voluto farne un cantore della “cosiddetta fratellanza universale”. La Nona Sinfonia? Una Sinfonie allemande che canta l’abbraccio pangermanico. Il Fidelio? Un’opera indiscutibilmente controrivoluzionaria. I lavori più significativi? Quelli, regolarmente occultati dai critici, delle musiche patriottiche, i canti guerrieri per i volontari del 1797, l’Oesterreich über alles del 1809 e l’inno Germania risorgi del 1814 (ma le ha mai sentite, Buscaroli, queste composizioni, musicalmente di una bruttezza spaventosa?). Insomma, la rivendicazione di una nuova immagine di Beethoven è il frutto di una pesante ipoteca ideologica, nella quale i dubbi, le ambiguità, le contraddizioni, le ombre non hanno accesso. Facendo suo un aforisma di Nietzsche (“Vi è solo biografia”), Buscaroli fa della biografia del più grande musicista prodotto dal “classicismo rivoluzionario” (e qui concordiamo) la chiave della sua revisione sopra l’età seguita alla Rivoluzione, estendendo il suo sguardo alla storia universale: e si capisce benissimo dove voglia andare a parare. Anche accettando il principio di Nietzsche (ma quante sciocchezze si sono dette in nome di Nietzsche, ammoniva Elias Canetti), la visione rischia di divenire unilaterale se non monolitica, di presupporre un’adesione più o meno incondizionata al prescelto punto di vista. E ciò finisce per essere il vero limite di un gigantesco lavoro, che trova i suoi momenti migliori quando Buscaroli, che evidentemente ama e capisce non solo Beethoven ma anche la musica, sospende o dimentica i suoi pregiudizi. E ciò avviene non soltanto nelle pagine illuminanti, oltretutto degne di un grande scrittore, che affrontano aspetti “biografici” come il significato della sordità o i risvolti sottesi al testamento di Heiligenstadt, ma anche quando si parla di stili, caratteri e composizioni, senza scadere nell’aridità critica di generi, materie e fissazioni, ma anzi entrando nelle pieghe più riposte del tema: raramente si sono lette osservazioni così acute e pertinenti sulla questione controversa della dedica dell’Eroica, sul cosiddetto tardo stile (giacché l’autore dimostra come la divisione tradizionale in periodi non abbia senso in una parabola a suo modo continua e ascendente) e soprattutto su quello che Buscaroli non fa mistero di ritenere l’apice di tutto Beethoven, ossia la Missa solemnis (e qui gli si perdona volentieri perfino qualche parola di troppo contro Adorno: perché, al contrario di quel che pensa il nostro Führer, una cosa non esclude l’altra). Alla cultura sterminata profusa in questo volume e all’acribia aspra, dura, perfino cattiva di Buscaroli, voce comunque di una razza superiore (ma non nel senso in cui  l’intenderebbe lui) vorremmo affettuosamente additare, dal catalogo del Titano, un piccolo cammeo “brechtiano” come il Rondò a capriccio in sol maggiore “La stizza sul soldino perduto”; ma lui ci risponderebbe in uno squillante do maggiore con la minacciosa scritta che appare ripresa a grandi caratteri sulla quarta di copertina: «Fortunate le culture che quando tutto si polverizza e muore hanno ancora eroi a cui aggrapparsi».

 

  • Piero Buscaroli, Beethoven; Milano, Rizzoli 2004, pp. 1360.