1 Giugno 1993
Peer Gynt, scene di incomprensione
In nessuno degli
ultimi tre grandi allestimenti del Peer Gynt di Ibsen che io ricordi – Peter Stein a Berlino
nel 1971; Patrice Chéreau a Parigi nel 1981; Ingmar Bergman a Stoccolma nel
1991: curiosa progressione decennale –
Grieg fu chiamato a collaborare dall’autore stesso, quando questi decise,
nel 1874, di dare al poema drammatico una realizzazione anche teatrale. Nella
lettera di invito Ibsen affermava di ritenere la musica un elemento essenziale
e imprescindibile della rappresentazione; e a tal proposito, con ingenuità pari
all’entusiasmo, dava anche alcuni suggerimenti pratici, illudendosi che il
testo li potesse già implicitamente accogliere. Grieg si guardò bene dal
seguirli. Al progetto lavorò con lentezza e di mala voglia, attratto
soprattutto dall’onorario e dalla grandiosità dei mezzi a disposizione, che
peraltro non impiegò interamente. Alla prima rappresentazione, avvenuta al
Teatro di Christiania nel febbraio del 1876, il successo più grande toccò
proprio a lui. Per molto tempo ancora Peer Gynt fu
famoso soprattutto per le musiche di Grieg: il Mattino,
la Danza di Anitra, la Canzone
di Solvejg.
Le musiche di
scena di Grieg offrono una dimostrazione di come una musica bellissima non
riesca ad armonizzarsi col dramma a cui è destinata perché questo dramma la
rifiuta. Anche Goethe destinò il Faust per metà alla musica, ma nessun musicista ebbe mai il
coraggio di affrontare direttamente la sfida: chi lo fece, scelse strade
diverse, deviando dalla meta. E Goethe stesso non mancò, finché visse, di farlo
notare con sarcasmo. La sua eredità fu tanto ricca quanto inevasa. Ibsen, che
non aveva le ambizioni di Goethe, pensava, da uomo dell’Ottocento, che
l’impiego di interludi orchestrali e di inserti vocali, e perfino il fascino un
po’ ambiguo del melologo (ossia della recitazione accompagnata dalla musica),
avrebbero «addolcito la pillola, così che il pubblico potesse inghiottirla»:
strano modo davvero di considerare il proprio lavoro, e quello altrui. Grieg si
convinse subito che non si potesse salvare quel racconto strampalato e
bizzarro, disomogeneo e provocatorio, se non stemperandolo in luci e ombre più
immediatamente riconoscibili e percepibili. Di Peer Gynt vide l’involucro, non il
cuore dolente, né la mirabolante fantasia: non arrivò a sbucciare la cipolla.
Dell’avventura
faustiana di Peer, Grieg colse soprattutto l’aspetto gaio, fiabesco, giocoso,
traducendolo in immagini vivide, che del sottofondo folclorico, o esotico, o
descrittivo, fanno di volta in volta un piccolo mondo. Questo mondo non è
quello vero di Peer, ma semmai dei personaggi che lo attorniano, da cui egli
fugge, o a cui vorrebbe ritornare per fermare l’attimo fuggente. È il mondo di
Grieg, come noi lo possiamo ricavare, intatto e partecipe, nelle Suites
orchestrali che continuiamo ad ascoltare con emozione, vagheggiando un dramma
che è altrove: un dramma che rifugge dalla consolazione della musica, dai
colori tenui dei suoni e dalle dolcezze del canto. E questo Grieg lo aveva
capito, rimanendo fedele a se stesso, senza spingersi negli abissi e alle
altezze di Peer.