1 Settembre 1992
Darius, superbo artigiano della scena
Non c’è campo
della produzione musicale in cui Darius Milhaud non si sia cimentato nel corso
della sua lunga carriera, iniziata nella Parigi delle avanguardie del primo
dopoguerra e terminata quando la “nuova musica” nata sulle ceneri del secondo
conflitto mondiale aveva ormai esaurito la sua fase più radicale. L’opera di
Milhaud accompagna questa parabola con un numero sterminato di titoli, oltre
settecento, molti dei quali legati a occasioni contingenti, alla maniera
antica, o suggeriti da esperienze personali, in modo immediato. Ci sono
compositori che crearono con la precisa coscienza della loro inattualità,
presupponendo un riconoscimento che sarebbe venuto solo dopo la loro morte, dai
posteri; e compositori, invece, che furono intimamente legati alle vicende del
loro tempo, e ne rappresentarono le diverse facce in perfetta simbiosi con le
necessità più elementari e naturali della produzione artistica, senza caricare
i loro prodotti di messaggi testamentari: per costoro, come per Milhaud,
scrivere musica era un bisogno primario che non sottintendeva lacerazioni o
impotenze. Anzi: comporre significava partecipare al mondo della società
civile, dandone feconda espressione nella sfera di un’arte connessa con
l’evoluzione del gusto e della cultura di una nazione.
Che poi spesso
compositori di questo tipo inclinassero verso un’arte cosmopolita e universale,
nella quale temi di più ampia portata si proponessero di parlare all’umanità in
quanto tale, non cambia sostanzialmente il modo di pensare e di sentire la
musica in funzione di un’aperta comunicazione, ma è semmai solo la conseguenza
di una visione che si allarga senza perdere la propria identità: e ciò vale
anche per la questione, centrale nella storia dell’arte fra le due guerre, dei
rapporti fra tradizione e avanguardia. Termini che per esempio Milhaud non
intese mai in opposizione: nel senso che per lui non esisteva manifestazione
del pensiero musicale contemporaneo che non si ricollegasse a una solida
tradizione e che, nell’anelito alla libertà proprio di ogni creazione
artistica, non rivelasse una spinta verso il futuro. Ogni sua opera è dunque il
risultato di una duplice opzione, costruire sull’esistente e dischiudere nuove
possibilità espressive: ma orientandosi costantemente su reali processi di
mediazione sia con le forme e i linguaggi che con la destinazione finale della
musica, ossia il pubblico. Un pubblico, per di più, individuato con esattezza e
portato a osare fino al limite della comprensione, ma non oltre. Ciò che spesso
fu rimproverato a Milhaud, ossia non aver portato a conseguenze estreme le sue
pur audaci innovazioni, è non solo un carattere che rispecchia tutta la sua
musica ma anche la forza della sua presenza nella musica del Novecento.
Nel teatro
Milhaud è stato un compositore assiduo, esemplarmente pratico nel coniugare
canto e orchestra, dramma e poesia. Se da un lato la sua predilezione andava ad
argomenti che affondavano nel mito e nella storia, ergendovi a protagonisti
eroi di forte tempra, fossero essi Medea o Arianna, il David della Bibbia, l’imperatore del Messico Massimiliano o Simon
Bolivar, dall’altro lato seppe garantire una patina di modernità impegnando
nelle sue imprese letterati e librettisti di cui condivideva non solo le idee
ma anche lo stile, come Jammes, Lunel e Claudel: con quest’ultimo collaborando
prima nell’affresco monumentale, allegorico e sommamente rappresentativo, del Christophe Colomb, poi nell’adattamento intriso di
spirituale fervore della trilogia dell’Orestiade di
Eschilo. La grandiosità di queste opere riposa sull’aderenza di un linguaggio
amplificato nella sua complessità politonale a una profonda resa della
drammaticità lirica ed evocativa del testo. Ma anch’essa è solo una faccia
della vocazione teatrale di Milhaud: e a farle da contrappeso sono soprattutto
le geniali opere da camera, tra cui spiccano un piccolo capolavoro di umorismo
nero come Le pauvre matelot, su testo di Cocteau, ma
anche rivisitazioni più ironiche e dolenti del mito, come Les
malheurs d’Orphée, spostato nella natura selvaggia e fantastica della
Camargue.
Sono opere, oggi,
tutte da riscoprire, ricollocandole nella loro giusta dimensione. Ad esse nuoce
il fatto stesso di non essere etichettabili in una tendenza univoca del
Novecento. Al contrario di quanto accade per frutti più scopertamente legati a
una stagione dell’avanguardia, che in Milhaud come in altri trovò massima
attuazione nel balletto; dove almeno due lavori, Le boeuf
sur le toit e La création du monde, non sono
mai usciti dal repertorio.
Milhaud,
soprattutto il Milhaud sovrano, superbo artigiano, capace di fornire musiche di
scena a un intero repertorio di pezzi teatrali oltre che di concepire
autonomamente opere nelle quali le componenti di sempre s’aggiornano e si
rinfrescano, ci offre il senso di una civiltà che non si arrese alla crisi. E
solo un’epoca che supererà questa crisi potrà tornare ad apprezzarlo
pienamente.