1 Febbraio 1997
La lezione di Siciliani
Francesco
Siciliani è stato non soltanto il più grande organizzatore musicale italiano
del dopoguerra, a suo modo erede della tradizione impresariale ottocentesca, ma
anche una personalità di assoluto spicco e di rilievo mondiale (Siciliani è
morto il 18/12/1996). Si deve a lui gran parte dell’opera di
sprovincializzazione della nostra cultura a partire dagli anni Cinquanta, sotto
il profilo sia del repertorio – tanto di quello di un patrimonio storico
dimenticato quanto di quello contemporaneo – sia della scoperta degli
interpreti più adatti a farlo rivivere: dove il nome di Maria Callas è solo la
gemma di una fulgida corona.
Il segreto di
Siciliani era di essere egli stesso in primo luogo un artista in potenza: vuoi
per talento, vuoi per formazione e studio. Avrebbe potuto essere un pianista o
un compositore se la curiosità intellettuale, di forte impronta umanistica, non
lo avesse spinto a non precludersi il piacere della scoperta al di fuori di una
sola specializzazione professionale. Amava gli artisti, per i quali aveva un
fiuto particolare, pressoché infallibile; ma sotto sotto sapeva coglierne con
ironia i lati meno gradevoli, quel misto di infantile e di megalomane che è
proprio dell’interprete musicale. Li ammirava e insieme li guardava con
sospetto. Soprattutto, sapeva manovrarli come nessuno.
Aveva elevato a
sistema, fino a farsi un nome proverbiale, il principio della sospensione: non
dire mai né di sì né di no. Naturalmente sapeva benissimo fare le sue scelte e
influenzarne i risultati, ma in modo che la decisione sembrasse sofferta,
incerta proprio per la sua importanza, da ultimo fatale. D’altra parte sapeva
convincere come pochi della bontà dei propri consigli, correndone fino in fondo
il rischio, salvo ritirarsi in disparte qualunque ne fosse l’esito: che era
sovente splendidissimo, e che lui dimenticava subito per passare al successivo.
Uno stratega così fine, con una psicologia alquanto complicata, alla cui radice
vi era una componente cattolica fortissima e inquieta, era però anche capace di
passioni inesauste, di implacabili fedeltà a un’idea o a un autore; allora
Siciliani diventava una sorta di missionario a cui l’altrui convincimento non
bastava mai, giacché c’era sempre qualcos’altro da aggiungere per approfondirlo
e rafforzarlo.
Vedeva le cose
della musica a trecentosessanta gradi, senza preclusioni: fu uno dei precursori
del restauro stilisticamente corretto di capolavori del passato (per esempio
negli anni gloriosi della sua direzione del Maggio Musicale Fiorentino) e nello
stesso tempo avallò operazioni di tutt’altro segno, quando servissero, in altre
condizioni, a gettare almeno il primo seme di un riconoscimento (un caso su
tutti: i primi Ugonotti della Scala, orrendamente
tagliati ma con una compagnia di canto mai più udita né udibile). Non per
niente dette il meglio di sé quando fu a capo dei massimi teatri italiani,
prolungando quell’esperienza teatrale, che più rispecchiava la sua natura
insieme aristocratica e popolare, nell’invenzione delle esecuzioni in forma di
concerto durante le stagioni pubbliche della Rai: dove per primo affermò prassi
esecutive oggi del tutto normali. Il suo sostegno alla musica contemporanea
italiana fu caloroso: anche qui, benché sapesse benissimo distinguere, non
disdegnò di sostenere qualche causa persa, impartendo la sua ecumenica
benedizione anche a chi sarebbe stato presto travolto dall’impietosa falce
della storia. Molte di più, però, furono le cause fortissimamente volute e
vinte.
Il fascino
dell’uomo nasceva dalle multiformi facce del suo ingegno e del suo sapere, ma
aveva anche qualcosa di misterioso, di speciale. Dovunque e con chiunque fosse,
sapeva attirare su di sé l’attenzione senza mai farsi platealmente notare, come
un burattinaio che silenziosamente e nascostamente regga i fili di un mondo ora
comicamente folle ora tragicamente serio: personaggio carismatico d’altra epoca
e d’alto rango, di una cultura e di un’umanità scomparse.