1 Settembre 1999
Richard Strauss,
o la contesa voce/parola
Per quanto il suo
primo tentativo operistico appartenga ancora all’Ottocento, Richard Strauss e
il Novecento formano un binomio la cui formula può essere racchiusa in un solo
termine: teatro. L’autore dei poemi sinfonici, ancora influenzato da Wagner,
compie la sua liberazione nel momento in cui riconosce la propria vocazione sul
terreno della rappresentazione, confrontandosi con l’unico elemento fino ad
allora precluso al suo ricchissimo repertorio: la voce umana. Tutto il teatro
di Strauss (di cui ricorre l’8 settembre il cinquantesimo della morte), nelle
infinite variazioni degli usi e del trattamento della voce, dal declamato dello
stile di conversazione alla melodia spiegata, è un inno alle possibilità
espressive del canto; supporto alla tensione dell’arco melodico di vasto
respiro, intessuto con l’orchestra, ma trionfante alla fine come valore a se
stante: nella risoluzione e celebrazione dei suoi grandiosi finali d’opera,
vere e proprie catarsi dell’illusione e del sogno, superamenti del tempo
storico e dello spazio fisico. Qualcosa che non ha più nulla a che fare né con un
secolo né con una concezione estetica, ma è piuttosto una forma di conoscenza. Le
variazioni straussiane sul teatro sono a prima vista prive di qualsiasi
correlazione dialettica. Le esuberanze giovanili dei primi lavori, Guntram e Feuersnot, sembrano
proporre un modello epigonale sul filo dell’ironia e dell’accumulo, di
carattere fortemente centrifugo. Ma basta poco al compositore per capire che il
progetto universale wagneriano
– ivi compresa la smisurata ambizione del musicista poeta –
stride con lo spirito del tempo e non può essere oggetto né di emulazione
né di satira. La sterzata è netta: Salome, poi Elektra, atti unici di esasperata concentrazione che
toccano i limiti estremi del linguaggio teatrale e della tragedia moderna,
addirittura superando le più profonde e oscure tensioni dell’espressionismo. Introducendo
un dato mai più rinnegato: quello della compostezza e della dignità, della
massima semplicità e nobiltà di gesti, di stampo antico, classico.
Con l’opera
successiva, Der Rosenkavalier, Strauss aveva però
già cambiato di nuovo rotta. La commedia mozartiana ripensata da Hugo von
Hofmannsthal si vena di malinconia e di sorriso, di grazia e di leggerezza,
oscillando tra la severità pensosa e lo scatto pungente, senza reciproche
elisioni: il raffinato piacere del travestimento e della simulazione assume una
maschera che rende ambigui e indefinibili i valori del dramma, ma li innerva di
verità e di sensualità, lasciandoli sospesi in una vertigine di sensazioni cui
il canto sembra voler insieme imporre e negare un ordine razionale. La
situazione si ripropone, ma a fattori invertiti, nell’Ariadne
auf Naxos, tragedia che si tinge di commedia aggiungendo un altro
elemento al disegno già composito: la consapevolezza bonaria che non esistono
messaggi da trasmettere per mezzo del teatro, che tutto è, proprio come nella vita
osservata complessivamente, enigmatico e inafferrabile. Ma il teatro può far
altro: fermare l’attimo fuggente in un’estasi o in un sorriso e dargli una
forma luminosa, splendente.
Con Die Frau ohne Schatten, ancora con Hofmannsthal, Strauss
parve tentare una specie di sintesi dei generi, vedendovi, non a torto, l’apice
del suo magistero artistico. Ma subito dopo, per contrasto, il tuffo nella
fiaba romantica e la forte tensione simbolica accumulata in quest’opera avevano
fatto rinascere il desiderio di una commedia realistica, borghese, su una
innocua sceneggiatura familiare, attenta a tratti psicologici e a ritratti
della vita quotidiana: Intermezzo. Opera nella quale
il vulcanico laboratorio del compositore non soltanto contempla, accanto a
forma e stile, a psicologia e drammaturgia, risvolti inediti nel rapporto tra
parola e musica, ma attende a coniugare anche, con suprema sprezzatura, il
sublime con il banale, l’innodia trionfale già degli dei con gli affetti più
semplici, personali e privati, degli uomini. E ancora una volta è lo slancio
melodico, la campitura ariosa, a far decollare il quotidiano verso i dominii
destinati agli eroi, incanalando i vorticosi risucchi dell’orchestra verso
alvei più solenni e maestosi, radiosamente correnti alla foce.
La promessa di un
degno finale, nel quale peripezie e momentanee disperazioni si sciolgono come
per incanto, è presente fin dall’inizio nella commedia lirica Arabella, dove l’equivoco è esso stesso segno di
predestinazione e di conciliazione: in un modo così simbolico da travalicare
gli esili fili della vicenda e innalzarla a paradigma di un riconoscimento
assoluto. Qui possiamo individuare un altro aspetto fondamentale del teatro di
Strauss: il “lieto fine” non è semplice consolazione, ma impulso a pensare in
grande, a nobilitare le passioni, fittizie e inadeguate sempre, in una visione
di più alto spessore, di superiore bellezza; senza escludere – ma solo dopo
averla realizzata –
«La contesa tra
parole e musica è stata sin dall’inizio il problema della mia vita: la mia
ultima opera, Capriccio, la conclude con un punto
interrogativo». Così scriveva Strauss a proposito della “Conversazione per
musica” che chiude epigraficamente la sua carriera. Ciò che Capriccio mette in scena è, da un lato, l’essenza
dell’opera in quanto genere, dall’altro, la sua inessenzialità al di fuori del
suo ambito formale. Madeleine è incapace di scegliere in amore tra due
pretendenti che, incarnando due aspetti indissolubili del teatro, fusi nel
sonetto a lei dedicato, non possono essere in realtà divisi: ciò che ella non è
in grado di scegliere nella vita, lo ha già vissuto e amato nell’opera, nel
connubio perfetto fra parole e musica, cui rimane estranea l’azione. Questa
metafora, che può valere per tutto il teatro di Strauss, è pregna di molti
significati; uno su tutti: l’opera non esiste per ciò che racconta e
rappresenta, ma per ciò a cui allude, per le associazioni che crea e
soprattutto per il modo in cui gli elementi di cui si compone il teatro
musicale vengono individualmente illustrati e realizzati. L’enigma che la donna
non sarà in grado di sciogliere dall’esterno, il compositore Strauss lo aveva
già risolto definendo, all’interno del proprio mondo poetico e spirituale, una
chiusa perfezione di mezzi, stilistica. Sotto questo profilo, Strauss è un
artista del Novecento che celebra ritualmente la fine dell’opera, e nello
stesso tempo ne indica alcuni motivi di grandezza, per un’ipotesi inattuale di
sopravvivenza.