1 Gennaio 1993
Bologna, Götterdämmerung
Dilaga il Reno, crescono le Ondine
Soprattutto alla
fine, dopo il Crepuscolo degli dei
che pure dei quattro è lo spettacolo più bello, si rimane con un po' di
rimpianto per quello che complessivamente l'idea di Pier'Alli avrebbe potuto
darci del ciclo dell'Anello del Nibelungo,
se fosse stata realizzata a tensione meno alterna. La scelta di utilizzare i
sussidi delle riprese filmate non tanto per raccontare una storia parallela
all'azione e alla musica (siamo miracolosamente scampati dal sapiente che ci
spiegasse che Wagner aveva inventato anche il cinema) quanto per risolvere
determinati problemi di natura anche teatrale, raggiunge qui i suoi momenti più
alti: per esempio nell'episodio della morte di Sigfrido e della marcia funebre,
collegando la musica alla sua rappresentazione allusiva, o nella scena finale,
dove finalmente l'utopica didascalia wagneriana trova la sua realizzazione più
completa ("Mentre l'intero palcoscenico appare ancora occupato dal solo
incendio, il bagliore della vampa improvvisamente si spenge; così che riman
subito soltanto una nuvola di vapore, la quale, perdendosi verso il fondo, si
posa all'orizzonte a guisa di cupa nuvolaglia. Al tempo stesso, il Reno,
cresciuto in gran piena, rovescia il suo flutto sul luogo occupato dal
rogo". Eccetera. Per la prima volta tutto questo l'abbiamo non solo
immaginato, ma anche veduto. Ed è stato emozionante). Restano invece le
perplessità sull'uso dei film come mezzo evocativo di simboli che nell'essere
esplicitati (per di più arbitrariamente) perdono molto del loro significato:
vedi cavalli al galoppo, teorie di valchirie e di eroi in passerella, statue di
dei nel Walhalla-Museum, paesaggi bui e tempestosi che sarebbero piaciuti tanto
a Snoopy e che enfatizzano ingenuamente pur accettabili associazioni. Il
pericolo del didascalismo è la trappola dell'operazione coraggiosa di
Pier'Alli: e quando gli prende la mano, sfiora la banalità. Un esempio? In un
momento di megalomania, forse ispirandosi alla moltiplicazione dei pani e dei
pesci, pensa che sia utile che le tre figlie del Reno siano accompagnate da
altri gruppi di sorelle che ne mimano variamente i movimenti quando quelle
cantano (prima scena del terzo atto): il povero Sigfrido crede di avere le
traveggole, e si tiene prudentemente in disparte. Qui siamo fuori da ogni
rapporto col testo. E non è neppure un bel vedere.
Se rimarchiamo
questi momenti di imbarazzo (ma onestà impone di dire che in questo caso sono
forse gli unici in cinque ore e passa di spettacolo), è solo per ribadire che
Pier'Alli avrebbe potuto darci una Tetralogia
esemplare, e che la sua idea di base, cadute a parte, era di audace
intelligenza, con tratti di invenzione non comuni. La coesione tra inserti
filmati e spazio scenico teneva mirabilmente nel Crepuscolo, assai più che nelle precedenti giornate: con momenti di
autentica suggestione, proprio nel modo in cui la dimensione teatrale veniva
ricreata entro le proiezioni e ne assorbiva le sensazioni, continuamente
contrappuntando realtà e memoria. Si aggiunga che Pier'Alli è riuscito anche a
collegare coerentemente l'epilogo ai suoi lavori precedenti, molto togliendo di
inessenziale e sviluppando invece ciò che non solo stava alla base della sua
visione ma ne era anche la parte più viva: la riflessione sul mito come eterna
illusione dell'immaginario poetico e spirituale nei suoi archetipi. E questo
coglie in fondo un aspetto ben presente nell'opera di Wagner. Tutto sommato
l'intera operazione, realizzata dal Comunale di Bologna con pieno
coinvolgimento delle sue forze, oggi definitivamente attestate su posizioni di
qualità rara, si chiude con un bilancio positivo.
Il fatto che poi
questa sia stata anche l'occasione per ammirare senza riserve la civiltà di un
direttore finora lodato soprattutto per la sua ineccepibile bravura tecnica è
motivo che riempie di gioia. Riccardo Chailly ha dato qui la sua prova più
convincente: e scusate se è poco. Ha saputo raccontare la partitura dipanandone
i fittissimi intrecci con equilibrio ed eleganza, senza forzare mai le sonorità
ma cogliendo tutti i punti culminanti del dramma musicale e caratterizzandone
le specifiche valenze. E anche interpretativamente ha suggerito riflessioni
interessanti: per esempio che il Crepuscolo
non è solo asprezze e contorsioni, orrori e oscurità, ma possiede anche una
sua dimensione di fiaba (il primo atto) che si confronta con tradizioni non del
tutto dimenticate (secondo atto). Giungere poi alla scena finale facendo
sentire tutto l'immenso groviglio di destini che vi si addensano, e scioglierlo
a poco a poco nella commozione dell'addio e nella prefigurazione di una
speranza di nuova vita, con verità e passione, è qualcosa che può riuscire solo
a un musicista di profonda sensibilità, non solo a un bravo direttore. Chiediamo
scusa a Chailly se non ce n'eravamo accorti prima. Wagner è capace di queste
rivelazioni. Compagnia dí canto superba: cosa prevedibile con Siegfried
Jerusalem, Bodo Brinkmann, Matti Salminen, Hartmut Welker, Gabriele Maria
Ronge, Florence Quivar, il meglio di cui si possa disporre oggi per i
rispettivi ruoli; meno per Sabine Hass, debuttante nella parte di Brünnhilde dopo tante Sieglinde. E invece la
Hass ha dato prova di poter competere, almeno sul piano dell'intelligenza e
della musicalità (ma anche la voce si è irrobustita e affinata in modo
omogeneo, con qualche residuo problema negli acuti), con modelli importanti.
Uniche italiane nel cast, Tiziana Tramonti e Benedetta Pecchioli sono ormai
ondine collaudate, renane per vocazione. Ma il Reno, quello vero, sembra
proprio aver trovato a Bologna questa volta una delle sue migliori
trasposizioni. Non sarebbe il caso di ridarla tutta insieme, questa Tetralogia, lasciando a Chailly il tempo
di studiare anche Oro e Sigfrido (La Walkiria ce l'ha già) e Pier'Alli quello di
riflettere su alcuni punti?
Musica Viva, n. 1 – anno XVII