1 Gennaio 1993
Monaco: Jessye Norman e Sergiu Celibidache
Fino all'annientamento del silenzio
Non è che ci siamo
abbonati ai concerti di Sergiu Celibidache e dei Mtinchner Philharmoniker, la
sua magnifica orchestra, come la frequenza con cui ormai ne diamo conto
potrebbe far pensare. Il fatto è che quello che si è appena concluso è stato un
anno tutto particolare per lui, e non solo perché coincideva con il suo
ottantesimo compleanno. C'è stato il ritorno trionfale nella sua patria
d'origine, la Romania, dopo tempo immemorabile, e quello un po' me-no trionfale
(non per lui, ma per l'ambiente) a Berlino alla guida dei Berliner
Philharmoniker, che l'hanno chiamato dopo intrighi e fatti lontani
che si dicevano
superati e che ora sembrano avergli dichiarato un nuovo ostracismo in seguito
alle sue esternazioni non proprio benevole sulla qualità dell'orchestra
medesima (pare che Celibidache abbia ritardato apposta la partenza di tre
giorni per farsi sentire). Ci sono stati poi, a cavallo dell'estate, cinque
concerti straordinari (di nome e di fatto) con Arturo Bene-detti Michelangeli,
e quello al-quanto bizzarro del 28 giugno, giorno appunto del compleanno, in
cui Celibidache, dopo aver dato una festa in proprio onore, ha congedato tutti
quanti per dirigere senza pubblico la Quinta Sinfonia:
lui, l'orchestra e
Beethoven da soli. Bizzarria semplicemente sublime.
E ora, dulcis in
fundo, il con-certo più atteso, o almeno più desiderato dal Maestro, con
riguardo specialissimo per la composizione del programma: prima gli Ultimi
quattro Lieder di Richard Strauss, sorta di messaggio inequivocabile per chi lo
sappia intendere alla maniera di un custode dei classici, di una bellezza
radiosa soprattutto se a can-tarli è la lunare Jessye Norman (fortemente
inseguita e voluta a tutti i costi da Celibidache: per lei è stato pagato
l'ingaggio più alto mai con-cesso a Monaco a un cantan-
te per un pezzo con
orchestra); e poi la Sinfonia n. 6 "Patetica"di Ciaikovsky, se
possibile ancor più rappresentativa del Celibidache-pensiero in fatto di
direzione e di musica tutta (si può ancora di-re Weltanschauung, in questi
casi?).
Ed è appunto sulla
Patetica che vorremmo soffermarci. E non perché il testamento di Strauss non
meriti ulteriori commenti: in questa esecuzione, poi! Basti dire che a forza di
non sentirla più dal vivo ci eravamo quasi scordati di come canti la Norman, e
non so-lo non lo ricordavamo, ma non immaginavamo neppure che si possa cantare
così: timbro, portamento, fraseggio, stile, sentimento, emozione, personalità,
comunque la rigiriate, dal lato tecnico o espressivo, è l’esperienza più
esaltante e beatificante che oggi vi possa capitare di fare con una voce.
Vorrei poter dire che l'ho ascoltata per la gioia di tutti voi, e l'ho pensato
davvero; anche se ora provo vergogna a confessarlo, e temo la nemesi della
vostra giusta invidia.
Ma la Patetica, quella è stata un'altra cosa.
In fondo gli Ultimi quattro Lieder
sono un congedo sereno, da cui si rimane trasfigurati. Commossi, abbacinati ma
felici. Felici di poter pensare un giorno, al tramonto, sentendo risuonare
dentro di sé quella musica nell'attimo dell'addio: ecco, così mi immagino la
fine di tutto, "attraverso la gioia e il dolore siamo andati, mano nella
mano; ora riposeremo del cammino su questa terra silenziosa". Non può
essere che così: "è questo forse la morte?". E sia. Ma la Patetica, con Celibidache, è un'altra
cosa. Sofferenza che nulla risparmia, portata al limite dell'insostenibile.
Coacervo di rimorsi e di sensi di colpa. Visione impietosa di intollerabili
inadeguatezze. Roba che ti fa male, fino all'annientamento del silenzio. Occasione
protratta allo spasimo per far capire quanto la musica possa centrare il dolore
e il disfacimento: non di un compositore che esprime i suoi stati d'animo
attraverso i suoni, ma dell'esistenza stessa che si ferisce e sanguina, al
capezzale di tutta l'umanità. Senza trasfigurazioni, senza speranza. E perfino
senza ricordi.
Non metterla giù
così dura, direte voi. Proverò allora a raccontarvi come faccia Celibidache ad
accendere queste fantasie. Sento già la voce esperta, in fondo scettica, che
dice: con la lentezza dei tempi, naturalmente. Sì, con la lentezza dei tempi.
Questa Patetica è durata 65 minuti.
Togliete pure quattro minuti di pause tra un tempo e l'altro, ormai più
necessità che rito nelle condizioni di Celibidache: fanno pur sempre 61 minuti.
Ma cosa sono questi tempi cronometrici quando una precisa, oggi unica
"cultura del suono" impone che ogni nota risuoni nella sua intera
essenza, e si riverberi sulle note interne e contigue in tuttala sua venia e
prolonhta'. Sono tempi semplicemente immaginari, non quantificabili: un'idea
del tempo assoluto incarnata nella musica. Negazione del tempo che scorre
orizzontalmente, per farsi abisso d'immobilità perenne. E in questa prospettiva
un attimo, un'ora o l'eternità divengono la stessa cosa. Ancora fantasie.
Accese però - e questo è forse il punto fondamentale di tutto il ragionamento -
da una lucidità fredda e tagliente che nega in primo luogo, programmaticamente,
il sentimentalismo. Nessuno capirà mai, se non ascoltandolo, come faccia
Celibidache a dilatare il tempo togliendo al discorso infinito perfino l'ombra
dell'enfasi, a rendere il patetismo granitico, purissimo pathos. E quando si
parla di chiarezza, non si tratta di quella lucidità analitica che fa la
radiografia della partitura, ma di un'intuizione del respiro che l' anima, e
crea le associazioni tra le funzioni vitali dell'organismo sonoro, tra le parti
più differenziate e il tutto. Ne traemmo l'insegnamento che solo il controllo
completo, dal di fuori, dell'opera d'arte consente di entrare a far parte viva,
quasi consustanziale, della sua essenza, e quindi di rappresentarla
eseguendola. Nel caso della Patetica,
la mancanza di immedesimazione negli sfoghi, veri o presunti, dell'autore era
il segreto per renderne ancora più evidenti i contrasti, che con Celibidache
divenivano quasi rabbiose incandescenze, o viceversa per dare alle sospensioni
eleganti un tono di ironica condiscendenza, che ne smascherava la finzione solo
dopo averla accettata e celebrata.
Tutto ciò avvenne
nel segno di una grandezza che metteva quasi paura per la sicurezza
dimostrativa con cui era magistralmente esibita. Eppure non v' era in essa
niente di spettacolare: al contrario, essa sembrava giocare con la realtà
stessa della sua esistenza. Lo stordimento fu anche la conseguenza di una
rivelazione che pezzo dopo pezzo smontava ogni certezza acquisita, e al suo
posto non collocava altre certezze, ma solo inquietudini, e un tremendo senso
di disperazione, come dopo essersi persi in un labirinto senza poter ritrovare
la via d'uscita. Fu così che si accesero quelle fantasie. Sogni. Incubi. Dei
quali ancora mi vergogno: senza temere però questa volta la vostra invidia.
Perché se l'aveste ascoltata, questa Patetica,
forse avreste perso una parte di voi stessi, e oggi la stareste ancora cercando,
con sgomento.
Musica Viva, n. 1 – anno XVII