1 Novembre 1992
Monaco, Celibidache e Benedetti Michelangeli
Il veggente degli abissi
Non era previsto che Michelangeli e
Celibidache tornassero a suonare insieme così presto, dopo il concerto
specialissimo del giugno scorso, quando l'antica amicizia si era rinsaldata per
festeggiare l'ottantesimo compleanno del direttore, in modo così intenso da
sembrare davvero un evento irripetibile. Della partecipazione del pianista al
concerto inaugurale della nuova stagione dei Münchner Philharmoniker non v'era traccia nel programma ufficiale, e la
notizia si era sparsa quasi clandestinamente nel corso dell'estate, in piene
ferie, costringendo gli appassionati a rientri frettolosi per accaparrarsi i
biglietti delle due serate, messi in vendita un po' provocatoriamente attorno a
Ferragosto, e comunque andati esauriti nell'arco di poche ore. L'attesa era
accresciuta dal fatto che Michelangeli avrebbe suonato il Concerto in la minore di Schumann, ossia in un certo senso
interpretato se stesso attraverso uno dei suoi proverbiali cavalli di
battaglia: e niente sembrava più attraente dell'idea di una sfida al vertice di
un modello ormai entrato nella storia dell'esecuzione pianistica moderna.
Chi abbia assistito
a entrambe le esecuzioni, come nel nostro caso, a distanza di un sol giorno, ha
avuto la rivelazione del motivo che spinge Michelangeli a tornare sempre sugli
stessi pezzi, e soprattutto su un pezzo come questo, tormentato e squilibrato
su versanti diversi, del linguaggio, della forma, della tecnica e del contenuto
espressivo.
La padronanza
assoluta della pagina musicale nei dettagli più particolari, incontrovertibile
proprio nella saldatura di una tensione proiettata all'infinito con la chiarezza
abbagliante del minimo segno reso in sé significante, è la premessa di una
ricreazione che unisce la massima libertà dell'invenzione rapsodica alla logica
evidentissima di nessi e relazioni organizzati in una visione d'insieme
sommamente calcolata. Solo che questo calcolo, nel corso dell'esecuzione, della
singola esecuzione, segue ogni volta percorsi e associazioni diversi; e se alla
fine il risultato giunge ad assomigliarsi - secondo la vecchia regola che il
prodotto non cambia invertendo l'ordine dei fattori - il modo di arrivarci si
differenzia ogni volta in maniera chiaramente sensibile. In altri termini:
Michelangeli non suona, non ha mai suonato lo stesso Concerto, ma sempre un Concerto
diverso, anche quando per avventura il titolo è lo stesso. Tornare sugli stessi
titoli è dunque un mero accidente, un modo di esplorare l'intera letteratura
pianistica e ancor più l'intera gamma delle possibilità offerte dallo strumento
pianoforte. E solo così facendo l'accidente diviene universale, l'attimo ripetuto,
eternità.
Sarebbe banale
aggiungere che il potere di fascinazione non si basa tanto sui vezzi esteriori
di cui Michelangeli si compiace - mascheramento lucido dei suoi travagli più
intimi - quanto sulla forza incommensurabile di produrre emozioni inattese. Sta
però il fatto che queste emozioni inattese sono frutto di un calcolo, dove la
verità, svelamento ultimo della maschera, è la conseguenza dell'artificio
elevato alla massima potenza. Come l'artificio possa diventare verità, l'atto
di suonare in pubblico esperienza che nega il contatto e il calore, e insieme
ci conduca nel cuore della musica e di noi stessi, trasfigurandoci,
coinvolgendo intelletto e anima, è un segreto di cui Michelangeli conosce,
miracolosamente, la chiave. E poco importa se sia solo un illusionista o un
veggente riemerso dal fondo di un abisso. Ancor più sorprendente che
Michelangeli abbia eseguito il Concerto di
Schumann ribaltando la seconda sera il percorso della prima. Non l'impostazione
di fondo, si capisce. La quale si potrebbe, presa globalmente, intendere nel
senso di una lettura antiromantica, con puntate neoclassiche. Altissima la
posta in palio: dimostrare che il nitore strumentale prodigiosamente realizzato
con supremo distacco non azzera il contenuto espressivo, ma anzi lo intensifica
fino a dare, del romanticismo, un'immagine tanto depurata quanto eloquente.
L'interpretazione diviene così non ricerca di uno stile storicamente definito,
convenzionalmente delimitato, ma tensione verso l'assoluto, sintesi di
esperienze che si consumano nell'ambito della forma e del tessuto compositivo
attraverso la riflessione e l'emozione.
Per spiegarci
meglio, prendiamo in considerazione l'aspetto che maggiormente colpisce
nell'interpretazione di Michelangeli: il peso specifico posto sull'elemento
della cantabilità schumanniana. Si tratta, per lui, di un equilibrio instabile,
dove la negazione dell'immediatezza - una cantabilità semplice e distesa - si
risolve in affermazione di un lirismo tragico, in freddezza che brucia, o
viceversa in calore incandescente raggelato. Posto che il punto di equilibrio
sia nell'assolutizzare l'instabilità per mezzo della chiarezza della resa
strumentale, risplendente di luce propria, per raggiungere e stabilizzare quel
punto continuamente differito s'apre un ventaglio di possibilità e di strade
che Michelangeli non sembra voler escludere a priori, ma anzi percorrere
secondo l'estro del momento. Può così accadere che la prima volta Michelangeli
opti per una progressiva conquista della cantabilità come pienezza raggiunta
alla fine da una mancanza di canto drammaticamente sottolineata all'inizio, e
la sera dopo, quasi riprendendo ciclicamente il discorso da dove l'aveva
lasciato, inverta l'itinerario, e da una pienezza affermata all'inizio operi un
progressivo svuotamento della cantabilità, fino a ridurla nulla e silenzio,
dissolvenza di fantomatiche coordinate spazio-temporali, quelle stesse che
sembravano individuarsi nella costruzione a incastro della precedente
ricomposizione. Questo duplice processo di ricomposizione e scomposizione (ma
l'ordine potrebbe naturalmente essere invertito o variato), se da un lato
annulla l'oggetto in sé, ossia la composizione in quanto tale, fissata una
volta per tutte, dall'altro coglie un fattore essenziale dell'opera di Schumann,
e forse per Michelangeli di tutta la musica interpretata: l'anelito a
prolungare all'infinito le tensioni dei suoni organizzati in pensieri e
sentimenti, e a fare del possesso assoluto di un pezzo una condizione perenne,
eterna, di passione.
E probabile, anzi
certo, che Celibidache non condividesse nulla di questa impostazione; era però
in grado di capirla, e di assecondarla senza riserve. Soprattutto di intuirne
la portata: ed era allora un piacere vedere come modificasse un tempo o un
respiro, un accento o una dinamica, e sostenesse il dialogo al mutar d'ogni
minima prospettiva.
Le virtù dei grandi
si manifestano anche nell'umiltà con cui sanno fronteggiare le più impervie
avventure dell'interpretazione sul terreno dell'inaudito. E quando rimase solo,
il vecchio maestro seppe senza fatica ritrovare le sue certezze, le sue
nostalgie e le sue meditazioni sul tempo che passa e sulla musica che non ha
ascese e cadute, abissi e redenzioni, strade molteplici in cui perdersi e
ritrovarsi, ma solo una missione da compiere: celebrare il rito della grandezza
e custodirne i valori con la fedeltà degli eletti. La passione secondo
Michelangeli. Il Vangelo secondo Celibidache.
Musica Viva, n. 11 – anno XVI