1 Ottobre 1992
... E io contraddico
Peter Stein, non solo regista: mina vagante del teatro contemporaneo, autentica star, genio provocatore, ex enfant terrible
Difficile
parlare di musica con Peter Stein. Non è il suo campo, né intende entrarci. A
Salisburgo, dove lo abbiamo incontrato, è stato chiamato a sovrintendere alle
manifestazioni del settore prosa, per rinverdire le gloriose tradizioni di
Hofmannsthal e Reinhardt, ossia di una stagione aurorale, quasi mitica, del
Festival: e i risultati si son visti subito, non solo nella sua splendida messa
in scena del Giulio Cesare di Shakespeare alla Felsenreitschule, ma anche nella
tensione e nell'impulso che ha saputo dare all'intero programma, cosa
che non accadeva da anni. Tuttavia Stein era e rimane un personaggio scomodo,
un vulcano di idee e una miniera di contraddizioni, che si sciolgono solo
nell'entità concreta delle sue proposte e delle sue realizzazioni artistiche. A
55 anni l'enfant terrible della scena tedesca, il creatore di quel tempio del
nuovo teatro dell'avanguardia classica che fu la Schaubühne berlinese (lui stesso
ne parla ormai al passato, ora che se n'è venuto via sbattendo la porta) non ha
smesso i panni di sempre, quelli dell'outsider e del provocatore cui tutto si
perdona in forza del suo autentico genio: una star nel senso più pieno del termine,
una mina vagante nel regno efficientisticamente impiegatizio e professionale
instaurato a Salisburgo da Mortier. Uno che le star non le vorrebbe vedere
effigiate neppure nella pubblicità delle vetrine dei negozi, e forse non
sospetta di essersene messa in casa una che gli darà molto filo da torcere.
Dalla
"politica culturale"del nuovo corso di Mortier, del resto, Stein
prende più di una distanza. Ciò che accade in campo musicale, in fondo, non è
affar suo. Ma si schiera apertamente, e non solo per dovere d'ufficio, dalla
parte dei registi, molti dei quali sono suoi amici e compagni di strada da
anni. Ursel e Karl-Ernst Herrmann, per esempio, suoi collaboratori fissi in
molti, memorabili spettacoli alla Schaubühne.
Quello che ha fatto Muti (anzi, Riccardo, come lo chiama lui) è
vergognoso. Soprattutto perché Riccardo è un grande artista, che ammiro molto e
di cui ho comprato tutti i dischi. Non si possono trattare gli Herrmann come
cialtroni incapaci, questo è inammissibile. Riccardo sapeva benissimo che tipo
di regia avrebbero fatto gli Herrmann; checché ne dica Mortier, la regia della Clemenza di Tito era la stessa di dieci
anni fa a Bruxelles: esiste anche un video a dimostrarlo. Poteva benissimo non
essere d'accordo, questo è legittimo, ma fare tutto quel casino, dire: questa
regia è merda, andarsene a una settimana dalla prima, no, così non si fa. (Pare che, dopo mafia e pizza, anche casino e
merda facciano ormai parte dei
contributi italiani al vocabolario internazionale).
Eppure
lo spunto sarebbe stato interessante per un discorso sulla regia d'opera, sui
valori della musica in rapporto al testo, eccetera. Ma è difficile, l'ho detto,
portare Stein su un binario prefissato, che forse neppure l'interessa. Meglio
allora lasciarlo andare a ruota libera, per conto suo.
Ma poi chi si credono di essere questi
direttori d'orchestra, i depositari della verità? Loro non hanno dubbi, sono
oracoli che parlano in nome del compositore, beati loro. Mala vita, il teatro
che cosa sono se non dubbio, ricerca, discussione, collaborazione? Raggiungere
un piccolo brandello di verità è già un miracolo, e quando l'hai afferrato, o
credi di esserci arrivato, ecco che ti sfugge. Ti guardi intorno, e cerchi nel
volto di un attore, nello scorcio di una scena, nella frase di un testo un
appiglio a cui attaccarti. E tutto ricomincia da capo. E’ meraviglioso e
terribile insieme. Brevi istanti di un eterno tormento. Il mio pessimismo non
ha limiti, è vero; ma è questo che mi spinge ad andare avanti, a fare
Shakespeare, e a fare Faust per
cercare una risposta ai miei dubbi.
Il
direttore d'orchestra è però il garante dell'integrità del testo in rapporto
alla musica, che ne è l'elemento distintivo, cui occorre serbare fedeltà.
E allora facciano loro anche la regia. Qui a
Salisburgo ne abbiamo già avuto uno, il più grande. Karajan, certo. Se chiudevi
gli occhi, venivi trasportato in un mondo di sogno, di estasi. Se li aprivi...
Ecco, quelle erano regie di merda. Il trionfo della morte del teatro, a maggior
gloria della musica e naturalmente del demiurgo che officiava il rito. A suo
modo una cosa molto affascinante e istruttiva. Quando ancora stavo a Monaco e
incominciavo a fare teatro, quando eravamo tristi e sfiduciati, io e i miei
colleghi, lo sa che rimedio usavamo? Venivamo a Salisburgo a vedere quelle brutte
regie, e ci dicevamo: se qui, nel festival più importante del mondo, le cose
stanno così, forse il nostro lavoro, le nostre idee non sono inutili. Ci
sentivamo rinfrancati, noi piccoli piccoli, e motivati. Era tutto molto
infantile, ma funzionava.
E
oggi a Salisburgo c'è arrivato lei, con molti altri suoi colleghi. Una
rivincita?
Oh no, quei tempi sono passati. Non cerco
rivincite, ma solo la possibilità di lavorare secondo le mie capacità. E spero
di avere successo.
Di
critica, di pubblico?
Non credo a spettacoli incensati dalla
critica ma disertati dal pubblico. Se il pubblico non viene a teatro, vuoi dire
che lo spettacolo non vale abbastanza. Il problema è che spesso s'incontrano
resistenze che nulla hanno a che vedere con la qualità dello spettacolo. Ma,
più o meno, è sempre stato così.
Il
ricambio di pubblico a Salisburgo può in effetti essere un problema, non
foss'altro che per l'alto costo dei biglietti. Mortier parla di un pubblico più
giovane, più disponibile alle innovazioni.
Dio mio, non sono un darwinista, ma credo
all'evoluzione della specie del pubblico. Per il mio Giulio Cesare ho preteso un largo contingente di biglietti a 200 e
anche 100 scellini (venti, diecimila lire), ma non sono stato a controllare il
reddito di coloro che li acquistavano. Io, per esempio, preferisco sedere in
fondo anche quando potrei stare in prima fila, mi piace vedere lo spettacolo
attraverso le teste degli altri spettatori, lo trovo più eccitante. Conosco
invece persone che se non possono stare nelle prime file rinunciano ad andare a
teatro: e se c'è la passione, si trovano anche i soldi. Quanto alle
innovazioni: credo che Mortier, nell'opera, voglia riequilibrare l'aspetto
dell'interpretazione scenica senza mortificare quella musicale. Mi sorprende
che si sia voluto far passare Mortier per un affossatore dei valori musicali,
con crociate anche un po' ridicole. Non è un ingenuo, sa benissimo che a
Salisburgo più che altrove ci si aspettano grandi interpretazioni musicali. Lei
ha visto e sentito Da una casa di morti
di Janàček? Non è uno spettacolo "degno" di Salisburgo? A parte il
fatto che quest'idea di Salisburgo torre d'avorio della Musica con la maiuscola
mi fa un po' ridere. (E ride davvero). Anche Mortier ha le sue idee. Lasciatelo
lavorare e poi giudicate, se così vi piace. Nessuno ha mai pensato che dopo di
noi sarà il diluvio.
Né diluvi né tempeste, dunque. Ora che
l'uomo nero si è placato, forse è il caso di ritornare sull'argomento che più
ci sta a cuore. Magari aggirando l'ostacolo, per prenderlo in castagna.
Lei
ha messo in scena di recente Pelléas et
Mélisande di Debussy diretto da Boulez prima a Cardiff, con la Welsh
National Opera, poi allo Châtelet di Parigi, con gli stessi complessi. In
precedenza, nel campo dell'opera, aveva affrontato soltanto, curiosamente, due
Verdi, Otello e Falstaff, sempre a Cardiff. Possiamo parlarne un po’?
Già, Otello e Falstaff. Mi interessava verificare sulla scena queste
trasposizioni musicali da Shakespeare, scoprirne per così dire la dimensione
operistica, l'una tragica, l'altra comica. E’ passato qualche anno da allora.
Gli spettacoli filavano, ma fino a un certo punto: forse erano sbagliati i
presupposti, ossia partire da Shakespeare, che conoscevo bene, per arrivare a
Verdi, che non conoscevo. Del resto si trattava di allestimenti in un certo
senso didattici, con cantanti giovani, sperimentali e nati per una compagnia di
giro; che difatti girarono molto, soprattutto in teatri piccoli e di fortuna: e
anche questo era più shakespeariano che verdiano. Fu comunque un'esperienza
piacevole, soprattutto per le condizioni di assoluta tranquillità, senza troppe
pretese, in cui lavoravamo, con pochissimi mezzi, scoprendo cose che non
sapevamo e divertendoci a metterle alla prova. Ciò mi ha spinto ad accettare,
l'anno scorso, di fare Pelléas: anche
se qui c'era Boulez, una presenza determinante.
In che senso?
Boulez (anzi Pierre, naturalmente) ha
analizzato con me la partitura e il libretto nota per nota, frase per frase. E
ciò molto prima che cominciassero le prove in teatro. Per sei settimane abbiamo
poi lavorato coi cantanti, con l'orchestra, sulla scena. Abbiamo discusso su
tutto, prendendoci anche il tempo per riflettere. Sono molto grato a Pierre per
questa sua disponibilità. Da quale altro direttore d'orchestra potrei aspettarmela
oggi? E i cantanti? Dovrei rincorrere gli uni e gl altri fra un aereo e
l'altro, pregarli gentilmente di starmi a sentire, loro che sono tanto
occupati? Io sono abituato ai tempi della prosa, agli attori, alla stabilità
delle compagnie: nella lirica si programma tutto con largo anticipo, ma poi il
tempo per provare, per stare insier e conoscersi è poco. E forse dopotutto non
interessa a nessuno.
Forse il punto è proprio questo. Io ho visto
lo spettacolo a Parigi. Ciò che colpiva era la perfetta aderenza della regia
alla musica, pur nell'interpretazione originalissima che ne dava Boulez. E
ancor più sorprendente era il fatto che lei avesse rispettato ogni didascalia
del libretto, con un acume a dir poco raro, e nello stesso tempo ne risultasse
una visione realisticamente accesa, passionale, straordinariamente viva e vera,
lontana mille miglia dagli stereotipi simbolisti e impressionisti. In altri
termini, una regia fedele con una cifra molto personale.
L 'appassionata arringa mette in sospetto
Stein, che l'accoglie prima a bocca aperta, poi con una smorfia. Eppure ero
così fiero e sincero mentre la pronunciavo. Una folgorazione: gli artisti,
intendo i veri, grandi artisti, non sono mai vanitosi, perché le loro misure
sono, o dovrebbero essere, altre. Ed è ciò che da ultimo li distingue.
Lei era alla prima?
No, credo fosse la terza o quarta recita.
Peccato, se come mi
par di capire lo spettacolo le è piaciuto, sarebbe stata un'esperienza
istruttiva. La sala, che peraltro non era neppure pienissima, cominciò a
rumoreggiare già alla fine del primo atto, e alla conclusione dell'opera furono
molti di più i fischi e le proteste degli applausi. Senza contare le critiche,
che praticamente ci demolirono. Boulez tornava a dirigere a Parigi dopo non so
quanti anni, c'era stato l'affare della Bastille, dove quella sera cantava
Pavarotti, l'ostilità nei nostri confronti era palese, non contava più in prima
istanza il lavoro che avevamo fatto. Ed evidentemente la mia regia non era più
così "fedele" come lei dice. O quantomeno troppo poco simbolista e
impressionista. D'altronde, sono tutti termini di cui fatico a capire il
significato. Io ho realizzato il testo come lo sentivo e vedevo in teatro.
Diavolo d'uno Stein, uomo di pietra se il
nome non inganna: capisco dove vuoi andare a parare, al tutto è relativo.
Scelgo allora la difesa in arrocco.
Forse a qualcuno poté dispiacere un Debussy
ripulito delle consuete, fumose convenzioni, tanto fremente e palpitante sulla
scena quanto asciutto, doloroso nella musica. Ma nessuno potrebbe negare che vi
fosse congruenza fra ciò che si vedeva e ciò che si ascoltava.
Oh, se è per questo
fu negato, fu negato eccome. Insomma, ci accusarono di aver falsato Debussy. E
chissà, forse da un certo punto di vista era anche vero. Ogni interpretazione è
la messa a fuoco di un obiettivo, che non esclude altre angolazioni. Per questo
non credo alle verità assolute.
Il suo realismo, la sua ostinazione a
scavare dentro il testo per trovarne i cardini fondamentali, su cui costruire
l'edificio della messinscena, sono comunque qualcosa di diverso dalle
astrazioni particolari del cosiddetto teatro d'idee tedesco che oggi impera,
anche a Salisburgo.
Ognuno segua la sua
strada e faccia le sue scelte. Ma con serietà, e senza credere di avere la
verità in tasca. Che posso dire di più?
Quest'anno che per l'appunto Boulez è
protagonista a Salisburgo, non ha pensato di portare qui il Pelléas?
Non sono mica
matto. Avrebbero detto che importiamo uno spettacolo di seconda mano. E che i
cantanti non sono all'altezza di Salisburgo, che nessuno li conosce.
Inutile chiedere allora perché ci hanno
rifilato una Clemenza di Tito già vista a Bruxelles, si
capisce che Stein, uomo d'onore non meno di Bruto, non risponderebbe. Del
resto, ora l'uomo si è fatto svagato come un Peter-Pierino, quasi insofferente.
Prendo tempo e decido di ripiegare sulla routine delle interviste.
Perché non fa una regia d'opera a
Salisburgo?
Perché non mi hanno
chiamato qui per questo.
Ma ha altri progetti altrove?
Con Pierre (Boulez) stiamo pensando a Moses
und Aron di Schönberg per Amsterdam, nel '94. Vedremo. L'offerta c'è, e
l'intenzione pure.
Si era parlato anche di una possibile regia
in Italia alla Scala. Addirittura della Tetralogia.
No, non credo. Gli
italiani sono adorabili, davvero. Un giorno viene uno e ti dice: senta, perché
non facciamo questo?
Bene, parliamone.
Passano i mesi e nessuno si fa più vivo. Poi lo incontri di nuovo e quello ti
fa, quasi offeso: ma insomma, non si era detto di fare quest'altro? Veramente
si era detto che ne avremmo parlato. E così passano altri mesi. È adorabile,
davvero. Guardi Giorgio (Strehler,
suppongo). Sa cosa mi ha risposto quando gli ho chiesto di fare una regia
qui a Salisburgo? Peter carissimo, mi ha detto, sia ben chiaro che io a
Salisburgo ci torno solo dalla porta principale, fa un po' tu. E io che debbo
fare, spianar Salisburgo per costruirgli un arco trionfale? Ma a parte questo.
Se anche si arrivasse a un contratto per una regia d'opera in Italia (dice proprio “contratto” come se si
trattasse di una meta incredibile), se accettassero le mie condizioni per le
prove e tutto il resto (mica vorresti anche
i cantanti sempre a disposizione, vero Stein?), chi mi assicura che a una
settimana dalla prima qualcuno non salti a dire che il mio lavoro fa schifo e
che farei meglio ad andarmene? Sa, non sarebbe carino, anche se gli italiani
sono adorabili, davvero. Grandi artisti, in tutto e per tutto.
Ho avuto un 'alta opinione di me per non
avergli risposto che a lui non accadrebbe. D'altronde, non ci metterei proprio
la mano sul fuoco.
Musica Viva, n. 10 – anno XVI