1 Settembre 1992
Monaco, Michelangeli e Celibidache
Come intrusi al concerto degli eterni
Può un'idea, un sentimento, in questo caso
un'esecuzione musicale essere contemporaneamente supremo artificio e verità
rivelata? E fino a che punto siamo complici con la nostra attesa e la nostra
immaginazione di ciò che si produce per mezzo di un'interpretazione
sconvolgente nella reazione biochimica della nostra sensibilità e della nostra
incertezza, fino ad avere l'impressione che tutto sia così definitivamente chiaro
da sembrare astrattamente assurdo, impenetrabile, irraggiungibile?
Il concerto che segnava il ritorno in
pubblico di Arturo Benedetti Michelangeli con Sergiu Celibidache e i Münchner
Philharmoniker nella sala della Philharmonie a Monaco appare ora un momento
esaltante sospeso tra la gioia dell'attesa e la malinconia del ricordo;
vivendolo, si ebbe soprattutto una sensazione palese di stati d'animo
contrastanti: estraneità e vicinanza, gelo e calore, abbandono e solidarietà.
Eppure, a voler essere sinceri, pochi altri concerti riuscivano a comunicare
una infelicità, un disagio altrettanto profondi e inesplicabili di questo.
Probabilmente questa affermazione non ha niente a che fare con il dato obbiettivo di ciò che si è ascoltato
in fatto di note, di colori, di suoni: nella fattispecie il Concerto in sol di Ravel, eseguito in
modo talmente... da sembrare solo un pretesto qualunque per avvicinarsi a un
altro mistero.
(Per completare i puntini di sospensione si
dovrebbe far ricorso a un intero repertorio di superlativi, e si potrebbe in
fondo scegliere a caso fra quelli mormorati o urlati dal pubblico che non si
decideva a sfollare dal tempio in preda a una frenesia molto eccitante e assai
poco liberatoria; o, meglio, andarli a cercare in coloro che tacevano,
rimanendo pensierosi e immobili). Ma non era questo che contava. Le meraviglie
di Michelangeli sono conosciute in misura inversamente proporzionale alla
frequenza delle sue esibizioni. E sono tali da apparire reali e irreali al
tempo stesso; anche, anzi soprattutto, quando si manifestano dal vero. Non
basterebbe il catalogo di rappresentanza del pianista perfetto a contenerle:
forza, agilità, esattezza, brillantezza, nitidezza, varietà di attacco,
sfumature di tocco, magia dei timbri, distribuzione dei piani sonori, uso
incantatorio del pedale, e via elencando. Ciò che si racchiude nel termine
"tecnica" è qui non solo virtuale bensì reso esplicito in una sorta
di lucido delirio dell'onnipotenza. Chiunque lo può intuire, anche chi non
abbia dimestichezza con i meccanismi sofisticati dello strumento, o non abbia
letto i libri di Piero Rattalino. Nel Concerto
di Ravel, del resto, tutti questi requisiti si addensano in una specie di
viaggio terminale e aurorale insieme ai confini del pianoforte; e dunque si spiega
perché Michelangeli lo prediliga e lo isoli tra i suoi favoriti nel poco
Novecento ch'egli frequenta: ogni volta, per l'appunto reinventandolo ex novo, come entusiasticamente e
statisticamente asserivano, magari a ragione, i suoi fedelissimi puntualmente
accorsi in pellegrinaggio a Monaco, gridando al miracolo.
A che cosa porta questa luciferina
padronanza delle più inimmaginabili possibilità tecniche ed espressive (giacché
nell'un termine rettamente inteso è da sempre compreso l'altro) del pianoforte di
Michelangeli? Ecco il punto: porta a una specie di risucchio nel vuoto, a una
visione onirica che ci fa perdere il senso dello spazio e del tempo reale.
Forma, stile, convenzione, precedenti, nulla esiste più: noi entriamo in una
dimensione di sogno nella quale non siamo più padroni di noi stessi, e nella
quale i particolari di una frase elegiaca, di un ritmo icastico, di un'armonia
spettrale, di una folgorante costellazione di suoni si ingigantiscono fino a
diventare entità a sé stanti, mondi bellissimi ma chiusi, iridescenze luminose
che ci abbagliano, segnali di cammini impercorribili da altri. Via via che
Michelangeli suona, si allontana da noi, fino a rendere la distanza
incolmabile: lo stato ipnotico si impadronisce della nostra volontà, l'ascesi diviene
ebbrezza, obbligandoci a una vicinanza in apparenza intimissima ma repellente
al contatto; e non basta più ammirare i pensieri, le strabilianti invenzioni
timbriche, la logica tuttavia stringente nell'interpretazione di un mondo
caleidoscopico e vertiginoso da cui siamo fagocitati ed espunti. L'infelicità
nasce da ultimo dalla consapevolezza che ciò che ci viene offerto non è
semplicemente un'esecuzione musicale, ma una possibilità irresistibile di
guardarci dentro fino in fondo, in un'introspezione che si compie per
interposta persona: e vivere anche per brevi istanti nell'assoluto di riflesso
genera una condizione di disagio, fors'anche una confusione di valori e di
identità.
La presenza di Celibidache acuisce questo
senso di lontananza, anche se in una prospettiva diversa. Con Celibidache non è
l'interprete a isolarsi in un'altra dimensione in cui rispecchiarsi, ma è la
musica stessa ad allontanarsi progressivamente dall'immediatezza dell'ascolto
per diventare rito celebrativo e dimostrativo. Ciò è evidente dal modo in cui
egli affronta i suoi beniamini, siano essi il Rossini della Semiramide, il Mozart sereno della Sinfonia "Haffner", come in
questo caso, ma anche Beethoven o Brahms o Bruckner, già più volte uditi in
quella specie di santuario che si è costruito a Monaco e dove è venerato come
un ministro del culto della nostalgia classica: il furtwängleriano custode
della grande musica. Un sacerdote che non affida nulla all'improvvisazione e
della fede incrollabile nei suoi principi fa ogni volta una sfida alla
miscredenza. L'incarnazione del suo mondo come volontà e rappresentazione sono i
Filarmonici di Monaco, un'orchestra che con lui ha raggiunto un grado di
tensione e di affiatamento che non ha uguali.
Ancora più sgomentevoli se si pensa che con Celibidache
ogni partitura viene rivoltata come un guanto: con salti mortali da capogiro
per arrivare al cuore della musica intesa come restituzione non della
tradizione, ma di un'idea della sua grandezza, solenne e monumentale. Bisogna
sentire l'ampiezza di dinamica o i bilanciamenti fra le sezioni, la qualità di
quei piano e di quei forte, il movimento interno delle parti in quei tempi
sostenuti dal respiro profondo e grave dell'incedere ineluttabile di antiche
processioni per rendersene conto: una cura del suono e del fraseggio maniacale,
raggiunta con prove ripetute e inflessibili. Ogni concerto, qualunque sia il
programma, comporta sei prove più la generale: quale altra orchestra al mondo
lavora oggi sempre con lo stesso direttore così a fondo e così a lungo? I
risultati si sentono tutti: e sono risultati commisurati alle intenzioni di
Celibidache nei confronti del significato che sta al di là della musica. Ora,
l'idea di Celibidache è opposta a quella di Michelangeli, nel senso che per lui
la musica è il fine, non il mezzo. Ma appunto nel momento in cui, come in
questo concerto, gli opposti giungevano a toccarsi, si realizzava quella
sublime unione di artificio e di verità nella quale si materializza la
rivelazione più alta dell'attacco interpretativo e della figura stessa
dell'interprete: costretto da un lato a sopravvivere in un'epoca epigonale di
vuote apparenze come mediatore della grande musica, dall'altro ad annullarsi
nell'illusione dell'eterna giovinezza di un mondo perento. E’ fin troppo evidente
che nella ostinata perseveranza con cui tanto l'uno quanto l'altro ripropongono
sempre le stesse opere fondamentali s'incuneano, più ancora del gusto e
dell'approfondimento, l'esorcismo dell'attimo fuggente e la convinzione
dell'eterno ritorno. E a ogni ritorno l'aspetto dimostrativo riacquista valore,
accrescendo la nostra stupefatta ammirazione per tanta sapienza e intransigenza
e il nostro disagio per la realtà dell'opera d'arte sempre più lontana
dall'immediatezza della semplice, fedele percezione. In questo senso
Celibidache officia riti di una religione dell'arte con gerarchie
dimostrativamente stabilite e governate da lui stesso: credere o non credere,
non esistono vie di mezzo.
Abbiamo ascoltato a Monaco un concerto
indimenticabile, unico nel suo genere, ma con la sensazione di essere non tanto
dei privilegiati quanto degli intrusi. E quando alla fine di Ravel, collocato
nella seconda parte, Michelangeli ha annunciato che avrebbe eseguito una serie
di fuori programma in onore del suo amico Sergiu che compiva ottant'anni in
quei giorni, venne suggellato un patto tra due grandi personalità fuori d'ogni
tempo, in una sfera così privata e intima da farci quasi vergognare di rimaner
lì ad ascoltare: vicini e pur lontani dal pianoforte di Michelangeli e dalla
regale poltrona in cui Celibidache, come un papa della musica, aveva preso
posto per ascoltare e ricordare. E chissà cosa si nascondeva di segreto in
quello Chopin, in quel Debussy, così struggenti da spezzare il cuore, dopo un
ultimo, ironico sorriso di compiacenza.
Musica Viva, n. 8/9 – anno XVI