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1 Giugno 1992

Salisburgo, Festival di Pasqua

 

L'infallibile e l'artista in cammino


Madame von Karajan sedeva nella quindicesima fila della galleria (Rang Reihe 15), quella riservata ai Kunst-und-Musik-Studenten. Aveva accanto un giovinotto di bellezza sfolgorante, biondo come lei, da film di Visconti ultima maniera, e lo vezzeggiava teneramente. C'era da dubitare che colui fosse lì in qualità di studente d'arte o di musica. Nell'intervallo della Donna senz'ombra diretta da Solti, all'uscita nel foyer della galleria, qualcuno la riconobbe ed evidentemente mostrò la sua meraviglia nel vederla lassù. E vero che gli intenditori, i più fedeli frequentatori del festival creato dall'imperatore della musica, preferirono sempre la galleria alla platea sfarzosa e mondana dei ricchi (li riconoscevi dal numero di fazzoletti che portavano con sé, per asciugarsi le lagrime durante le esecuzioni del Maestro); ma Madame von Karajan, allora, sedeva al centro del parterre, ed era uno spettacolo vederla entrare, a luci già spente, nello stesso istante in cui compariva il marito, e prender posto in perfetta sincronia con la sua conquista del podio: lui malfermo sulle gambe e sofferente, lei regale e altera come una dea. Scomparso il sole, anche la luna si nasconde: "Ach, zu viele Erinnerungen", mormorò la pallida dea all'amico sorpreso che la riverì, prima di sgusciare nell'ombra dei suoi tanti, troppi ricordi.

Si dice che sia stata proprio Eliette, erede dell'impero fondato da Herbert von Karajan, a ufficializzare Sir Georg Solti alla guida del Festival di Pasqua. Sarà lei a ripianare i costi dell'impresa, come faceva il fondatore, in nome dell'ideale che l'ispirò. Nessuno deve dimenticare che quello fu il Festival personale di Karajan: e difatti non c'è locandina, programma o manifesto che non lo ricordi. Naturalmente nella scelta di Solti hanno giocato anche altri, diversissimi motivi, economici non meno che artistici: del resto, promuovere un rivale a successore è anche un modo per prendere tempo, congelando i difficili equilibri di una continuità impossibile. A Salisburgo con lui son tornati i Berliner Philharmoniker, l'orchestra di Karajan che Karajan aveva ripudiato; ma, contemporaneamente, della Donna senz 'ombra e della Decima di Shostakovic eseguite quest'anno sono uscite le incisioni con i Wiener, gli eterni rivali, e con l'orchestra di Chicago, a lungo diretta da Solti: segno che anche nelle distribuzioni delle case discografiche, punto d'appoggio del potere di Salisburgo, qualcosa sta cambiando.

Se per ragioni anagrafiche e di carriera Solti era il legittimo pretendente alla successione, niente, sotto il profilo artistico, lo accomuna a Karajan. Che sia anche questo un modo per far rilevare le differenze nella continuità impossibile, nel contrasto delle personalità? Solti è un direttore asciutto, energico, nervoso, per il quale la musica è anzitutto ritmo, incisività, concretezza di immagini e di suoni. La sua padronanza tecnica è assoluta, la capacità di accendere la musica si risolve in esplosioni abbacinanti, che scuotono i sensi e lasciano un po' storditi, oltre che ammirati. Tutto accade lì per lì. Non si ha il tempo di pensare, si è continuamente incalzati da nuove meraviglie: la esuberanza affascina, puerilmente ci si domanda dove trovi un uomo di ottant'anni tutta quella forza e quella freschezza, in che cosa consista il prodigio della sua presa vorticosa sull'orchestra e sugli ascoltatori. La risposta viene a poco a poco lungo la smisurata partitura della Donna senz'ombra di Strauss, si conferma nelle scosse elettriche che galvanizzano 1' Italiana di Mendelssohn e nelle frenesie allucinate che percorrono l'amara parodia della Decima di Shostakovic: da come Solti anticipa col gesto ogni frase che verrà - tutto in lui si basa sull'anticipo del gesto, con geometrie razionali - si capisce che lo terrorizza l'idea che la musica possa fermarsi, che l'istante non sia proiettato nel futuro e non divenga vita, pienezza, eccitazione, furia. Da questo terrore, che si dice fosse anche di Toscanini, Solti trae la sua ebbrezza, il suo dinamismo, quand'è sul podio, e ne comunica i fremiti con incandescente lucidità. Se Karajan fu il poeta della memoria, egli è il custode di un fuoco sacro che non deve spegnersi mai.

La nuova formula del programma prevedeva, in alternanza a Solti, due concerti di Claudio Abbado che in futuro dovrebbe assumere la direzione dell'intero Festival di Pasqua. Abbado aveva scelto nel primo concerto il Requiem für Mignon di Schumann e la Sinfonia Lobgesang di Mendelssohn, nel secondo la Quarta di Schubert e la Quinta di Beethoven. Se si eccettua Beethoven, al suo livello consueto, le altre esecuzioni hanno avuto un'accoglienza non entusiastica e sono state alquanto strapazzate dai critici austriaci, soprattutto da quelli viennesi, forse astiosi dopo l'abbandono di Vienna da parte di Abbado. C'era scontento tra i fedelissimi del nostro direttore, mentre coloro che, chissà perché, continuano a fomentare ridicole rivalità provinciali ostentavano la loro soddisfazione. In effetti qualcosa non ha funzionato. Nel primo programma Abbado appariva come bloccato, distante e impedito a entrare nel vivo del discorso, di cui pure delineava con sicuro intuito le traiettorie e le prospettive. Rarissimamente Abbado ha difficoltà a realizzare le sue intenzioni, che si possono non condividere ma di cui non è mai possibile dubitare: qui accadeva in Schumann e in Mendelssohn, imprevedibilmente rigidi e impettiti, e perfino in Schubert, dove l'attrito era dato dalla resistenza che si veniva a creare tra l'idea di una musica da camera elegante, tersa e insieme, ripiegata su sonorità intime e le dimensioni in grande, sovraesposte dei Berliner. Affiorava perfino qualche problema d'insieme, probabile conseguenza di una trasformazione dell'orchestra che Abbado sta riplasmando con discrezione e la cui identità sta ancora cercando, in rapporto a se stesso. A noi tutto questo non è dispiaciuto affatto: significa che Abbado non ha portato nel suo recente incarico certezze esteriori ed efficienza raggiunta ma ricerca di nuovi equilibri, moti di ragioni più vere e profonde nello scorrere della vita e della musica. Se tutto ciò fosse già avvenuto come per incanto, dovremmo credere nelle favole o nell'onnipotenza di quegli strani maghi che sono spesso ritenuti i direttori d'orchestra. Non ammireremmo per questo di più Abbado, lo sentiremmo semmai più lontano ed estraneo. Può darsi che in questo caso l'impressione di una minore coesione sia stata determinata anche dal confronto con l'incomparabile, esibita brillantezza di Solti: ma Abbado segue altre strade, nelle quali il cammino individuale e il peso delle memorie, per maturare, richiedono riflessione, lavoro e tempo. Intanto neppure a Salisburgo il tempo si è fermato. O forse sì. Sulla tomba di Karajan, nel cimitero di Anif, tanti fiori freschi e tanti antichi ricordi, un nodo alla gola e la voglia di scappar via, in un altrove. Sul tumulo, una corona di rose già appassite - "il tuo pubblico" - era accompagnata dalla scritta parsifaliana: "qui il tempo diventa spazio".



Musica Viva, n.6 – anno XVI