opere / articoli / riviste musicali

visualizza su tre colonne visualizza su due colonne visualizza su una colonna ingrandisci carattere riduci carattere stampa

1 Giugno 1992

Parigi, Il Prigioniero e Pelléas et Mélisande

 

Amatissimi classici del nostro tempo

Un giorno, mentre studiava in Italia, Esa-Pekka Salonen vide la partitura del Prigioniero di Luigi Dallapiccola, l'aprì, la lesse da cima a fondo tutta d'un fiato e disse: "Se un giorno diventerò un direttore, sarà una delle prime cose che farò in teatro, subito". Salonen è diventato un direttore - forse si avvia a diventare un grande direttore - ed ha mantenuto la sua promessa di dirigere Il Prigioniero, prima di compiere trentaquattro anni. L'ha preparato a lungo con l'orchestra sinfonica della radio svedese, di cui è direttore stabile, l'ha eseguito in forma di concerto a Stoccolma - non solo lì Dallapiccola è riconosciuto al pari di Stravinsky o Schönberg, ma come Dallapiccola e basta - e poi l'ha portato allo Châtelet di Parigi, in teatro, nell'ambito di una stagione importante dedicata alla musica del nostro secolo. Ha avuto un grande successo personale, ma si è schermito dicendo che chiunque avesse diretto quella partitura avrebbe fatto un figurone: il che non è affatto vero, ma è bello che Salonen l'abbia detto, senza affettazione. Come è bello che l'abbia diretta come ha fatto, con l'entusiasmo giovanile della prima volta, la generosità anche ingenua di un amore a prima vista, dove ciò che conta è lo slancio più ancora della riflessione. Ha sentito profondamente che Dallapiccola pensava a un messaggio ideale, di umanità e di civiltà, e l'ha condiviso senza farsene un vanto, soprattutto senza fingersi per questo "impegnato" o a posto con la coscienza; anzi, la coscienza rispecchiava i dubbi del testo, ripercuoteva la domanda di una libertà che è l'ultima tortura della speranza: e questo, nei suoi trentaquattro anni di ragazzo semplice e di musicista già affermato, deve essergli sembrato terribile, ma anche affascinante, commovente e arduo, come una sfida tesa a capire se stesso e gli altri, la fede di Dallapiccola e l'angoscia delle sue ossessioni,1'autenticità del suo canto, dei suoi timbri, delle sue figure. Ma soprattutto Salonen si è interrogato sul linguaggio di Dallapiccola, nel suo senso del teatro, del dramma, della storia, della musica. Certo, gli mancano ancora punti di riferimento essenziali: la distesa attenzione per la parola scenica scolpita, la considerazione vissuta per la tradizione operistica che Dallapiccola aveva alle spalle, per la densità dei suoi cori che parlano una lingua antica, ma col retaggio di affetti sedimentati nell'esperienza. Ne ha colto invece la modernità, l'audacia inventiva, sentendolo come un rappresentante già classico dell'arte del nostro secolo, e dunque facendone un compagno di strada dei più avanzati sul sentiero del rinnovamento necessario dei mezzi compositivi. Ha reso con umiltà e orgoglio un giusto servizio a Dallapiccola e a quanti l'hanno ascoltato, perché anche dove non coglieva perfettamente nel segno sapeva trasmettere una adesione sincera e motivata. Il che, col talento che Salonen si ritrova, non solo garantiva un risultato di alto profilo musicale e intellettuale ma suscitava anche ammirazione e invidia.

Pierre Boulez non ha mai detto che un giorno avrebbe diretto il Pelléas et Mélisande di Debussy. Non c'era bisogno che lo dicesse, era scritto nel suo destino. Piuttosto è singolare che sia arrivato fino ad oggi senza dirigerlo a Parigi: i nostri cugini ci assomigliano molto nelle idiosincrasie verso i grandi. Allo Châtelet lo portava in un'edizione di bellezza perfino sgomentante, preparata lungamente a Cardiff con i complessi dell'Opera nazionale gallese. Peter Stein faceva la regia, ed era come se gareggiasse con Boulez nel rendere reale il Pelléas che avevamo sempre sognato. In teatro non c'è nulla di definitivo, niente esclude che si possa fare diversamente o anche meglio: ma chi ha visto questo spettacolo ha vissuto un'esperienza indimenticabile. E la ragione è in fondo semplice: si realizzava qui una concordanza piena tra la visione musicale del direttore e quella scenica del regista, al punto che il dramma era nella musica, la musica nel dramma, i cantanti erano attori, gli attori cantanti. Boulez era Boulez, Stein era Stein, Debussy era Debussy: ma tutti insieme facevano Pelléas et Mélisande.

Dimenticate come Boulez dirigeva il Pelléas tanti anni fa; o meglio ricordate la chiarezza, l'intelligenza, l'acutezza, la profondità dell'analisi e la logica rigorosa, altamente astratta, della sua sintesi, come le potete anche riascoltare nei dischi; pensate a chi è Boulez come musicista e compositore, e immaginate che a quelle qualità si siano aggiunte la dolcezza, la tenerezza, la nostalgia, la malinconia del crepuscolo. Che tutta questa miscela si armonizzi in una formula magica, tenuta sotto stretta osservazione; e che a poco a poco, nota dopo nota, segno dopo segno, sia inoculata nella partitura, e la faccia rifiorire. Avrete non soltanto Debussy, ma anche tutto ciò che significano per noi oggi, novant'anni dopo, questa musica e quest'opera. Non in una prospettiva storica, ma in una dimensione di dominio completo di ogni suo elemento risonante nel più profondo della nostra reazione sensoriale e spirituale: quasi una musica intesa e contemplata in un al di là dei sensi, e persino dell'anima, in una purezza trasognata. Questo riesce a fare Boulez oggi del Pelléas.

Come fa Stein a rendere esplicita sulla scena questa vibratile essenza della musica, questa impressione di vedere oltre i suoni e sentire oltre il dramma? Qui spiegare è più difficile. Anche perché per Stein non ci sono punti di riferimento, né nelle sue due precedenti regie d'opera, che nulla hanno a che fare con questa, né nelle sue produzioni di prosa, dove la mancanza della musica è decisiva.



Musica Viva, n.6 – anno XVI