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1 Aprile 1992

Attualità Discografica

 

Spohr - Jessonda

Julia Varady (Jessonda), Renate Behle (Amazili), Kurt Moll (Dandau), Thomas Moser (Nadori), Dietrich Fischer-Dieskau (Tristan d'Acunha), Peter Haage (Pedro Lopes), Peter Galliard (un ufficiale indiano), Corinna Meyer-Esche (una bajadera); Orchestra e Coro dell'Opera di Stato di Amburgo, direttore Gerd Albrecht.

(registrazione: Musikhalle di Amburgo, 4-8 VII 1990; pubblicazione: 1991)

Orfeo C 240 912 H (2 Cd)

 

La prima registrazione in Cd della Jessonda di Louis Spohr (1784-1859) reca un contributo importante alla conoscenza dell'opera romantica tedesca del primo Ottocento. Non spenderemo troppe parole sul fatto che anche quest'opera, rappresentata per la prima volta nel 1823 e divenuta in breve tempo un successo internazionale, scomparve dal repertorio con la morte del suo autore: Spohr ebbe molto dalla sua epoca, che lo riconobbe tra i compositori più autorevoli ed eseguiti, e dunque non ha crediti con la storia. Più lungo sarebbe il discorso sulle ragioni che portarono a questa scomparsa: lungo e ozioso, dato che occorrerebbe ripetere ragionamenti già fatti più volte in casi analoghi per altri musicisti, da Spontini a Marschner, da Auber a Meyerbeer.

Veniamo dunque al punto: finché la storia dell'opera tedesca sarà fatta saltando disinvoltamente da Mozart a Weber, e da Weber a Wagner, non soltanto continuerà a mancare il tessuto connettivo che spiega come quest'evoluzione (non progresso) sia stata possibile, ma si avrà anche un'immagine distorta del panorama, e forse perfino delle singole vette. Una storia fatta per vette è più facile da capire, ma rischia anche di essere semplificante in modo grossolano.

Ma il punto non è neppure questo. Il semplice (ma non semplificante) appassionato d'opera, dopo aver ascoltato questi dischi, avrebbe ogni ragione di protestare per non aver mai avuto la possibilità di sentire un'opera simile dal vivo. Dove, quando è stata fatta l'ultima volta? Intuirà certo che metterla in scena dev'essere complicato; ma non più complicato di altre opere che continuano a essere fatte e rifatte tranquillamente. Del resto nell'Ottocento era all'ordine del giorno in tutti i teatri: e dunque? Forse che la materia non potrebbe interessare, con quella ambientazione in un'India favolosa ed esotica che non è poi così dissimile da quella sempre sognata, e che rimane comunque oggi più che mai un'attrazione irresistibile? (Ecco un'opera da Maggio Musicale Fiorentino, se il Maggio avesse altri stimoli). Mancano parti da far gola ai cantanti, se non fossero pigri? No, ce ne sono ben sei, e ognuna è differenziata in modo straordinariamente ricco. E un direttore non troverebbe pane per i suoi denti in un'orchestrazione dai colori meravigliosamente vari, tanto raffinata quanto consapevole degli effetti che crea, e che sa stratificare le idee senza sperperarle ed estraniarle da un' azione che procede lenta ma inesorabile verso conclusioni coerenti con le premesse? Non viene qui forse celebrata una festa del teatro musicale, le cui coordinate sono sì di un passato lontano ma intatte nella loro grazia, nella loro generosità, nella loro ampiezza di vedute? Insomma, non è un piacere la scoperta di quest'opera? Non varrebbe la pena di offrirla al godimento collettivo e al giudizio del pubblico in un teatro? Se siete d'accordo, d'ora in avanti ci impegneremo - se il nostro direttore ce lo consente - in una caccia ai tesori perduti o semplicemente sepolti dalla pigrizia e dalle abitudini, o anche da superiori ragioni di opportunità. Non per la cultura, che ormai non esiste più, ma per il gusto di sopravvivere in un'isola deserta. Magari ci accorgeremo di essere in tanti. (Dimenticavo: i dischi si raccomandano anche per l'esecuzione, un Fischer-Dieskau così in forma non si trova tutti i giorni, e il resto è di primissimo ordine. Albrecht è un po' secco e monocorde, e al solito taglia e rabbercia la partitura, credendo che per salvarla si debba fare così. Si deve fare così?).



Musica Viva, n.4 – anno XVI