1 Dicembre 1994
Richard Wagner - Die Walküre
Dal saggio di Sergio Sablich, pubblicato nel programma di Sala del Teatro Comunale di Firenze per Die Walküre rappresentata il 20 febbraio 1980
Fra l'azione dell'Oro
del Reno e quella della Walkiria
intercorrono migliaia di anni. Ma è come se non ne fosse trascorso alcuno. Così
invita a pensare la musica, nel preludio che apre l'opera: l'uragano che spezza
la quiete orrorosa dell'attesa. Il suo compito è infatti quello di ritrarre
naturalisticamente una tempesta, dalla quale un uomo solo, smarrito, inseguito
e ferito cerca disperatamente riparo. Ancora non sappiamo che egli è Siegmund,
il giovane wälside perseguitato da nemici implacabili - i Neidinge - per aver
difeso una delle loro fanciulle costretta a nozze infami, e che ora giunge
stremato proprio nella casa di Hunding, il più feroce dei suoi avversari. Ma se
prestiamo orecchio alla musica, la figura della tempesta che squassa la scena,
coi suoi realistici crescendo e diminuendo, forte e piano, sullo sfondo immoto
di un lungo pedale di re minore, non è altro che una trasformazione del motivo
della lancia di Wotan, simbolo del potere e allo stesso tempo della schiavitù
del dio, su cui si inarca possente, tale e quale, ripetuto in progressione
armonica, il tema di Donner che verso la fine dell'Oro del Reno aveva evocato il temporale purificatore.
Riallacciandosi a un materiale tematico già pregno di
significati, Wagner non soltanto ottiene lo scopo di conferire continuità
all'azione, ma rende anche più profondi i nessi interni del dramma attraverso
la musica, su un piano di doppia, intuitiva simultaneità; quel che Wotan alla
fine dell'Oro del Reno avverte e
vuole (l'infamia cosciente della colpa e il desiderio di riscatto) si pone
immediatamente in atto all'inizio della Walkiria.
Quando dalla figura della tempesta, che poco a poco va calmandosi, nasce, come
per naturale filiazione, il motivo di Siegmund in fuga (violoncelli), un altro
particolare si palesa in virtù della sola musica: Siegmund è una prima
incarnazione del pensiero di Wotan, suo padre, ma non è ancora un pensiero
libero, come sarà invece Siegfried. La differenza, semplificando, sta tutta
nella opposta funzione di due simboli musicali già risuonati allo stato
elementare nell'Oro del Reno e ora
immessi nel divenire del dramma: la lancia (una scala discendente), simbolo
della santità del patto che rende schiavo Wotan, e a cui è strettamente
connesso il motivo di Siegmund; e la spada (un arpeggio ascendente), pegno,
nella mente di Wotan, della redenzione, e nucleo originario del tema di
Siegfried. Necessità del patto e necessità della redenzione (ancora una volta,
una duplice necessità!) sono i poli di attrazione intorno ai quali ruota l'intera
Tetralogia. E si ricordi: in tutta la
Tetralogia non esiste una sola scena
(tolte la prima dell'Oro del Reno e
quella delle Norne nel prologo del Crepuscolo
degli dei, che infatti si pongono al di fuori del dramma) in cui o la
lancia o la spada o entrambe non siano materialmente sempre presenti ai nostri
occhi. Con evidente, diretto significato.
L'apparizione, all'inizio della prima scena, di Sieglinde,
sposa infelice di Hunding, il conforto e il ristoro che ella offre allo
straniero esausto con atti di ieratica nobiltà in una atmosfera arcana e di
mistero (è inevitabile stabilire una mirabile, non casuale corrispondenza con
Elettra che accoglie il fratello Oreste a lei ancora ignoto), sono
contrappuntati in musica da un inquieto motivo che si ripete ossessivamente
uguale, statico e circolare (primi e secondi violini), espressione della sua
pietà ma anche della sua ansia di amore. Wolzogen per primo, ci pare, ha fatto
una osservazione solo apparentemente banale: questo motivo, egli afferma, compare
sempre a due parti (procedenti in terza, aggiungiamo noi), "quasi a voler
legare sotto il segno della compassione le figure di questa coppia
gemella". E quando si presenta a una sola parte, sottolineato con accento
particolare, ciò avviene in momenti di grande significato: quando Siegmund
vuole ripartire (e allora è spinto verso l'acuto, gridato quasi, su un basso
fremente), quando Sieglinde deve lasciarlo solo e quando ella ritorna presso di
lui. Lo segnaliamo come un esempio, volutamente semplicissimo, della cura
meticolosa e finissima con cui Wagner costruisce la sua musica, punto dopo
punto. Sottigliezze a cui egli teneva assai, e di cui la partitura della Walkiria è costantemente piena. Nel
dialogo della prima scena, riempito più di sguardi e di silenzi che di parole,
il motivo di Siegmund si congiunge a quello della compassione di Sieglinde.
Tali motivi, nella loro ineluttabile fissità, non hanno nulla di eroico, come
invano ci aspetteremmo: la flessione verso il grave del primo, con la ossessiva
presenza del modo minore e la sospensione ritmica quasi fisicamente dolorosa;
il tenero ondeggiare del secondo, che si innalza verso l'acuto solo per
spegnersi in un piano improvviso, sono figure musicali che non hanno avvenire.
Esse caratterizzano vittime predestinate, personaggi nati per espiare colpe
altrui, promessi alla morte. Già all'esordio (e poi è un continuo crescendo,
tanto più amaro perché ammantato di fugace illusione d'amore), un presagio di
sventura racchiude la storia di Siegmund e Sieglinde come in un bozzolo che mai
si aprirà alla luce e alla vita. Una storia che, anche nella musica, si consuma
senza svolgersi, accade senza divenire, dilacerata tra passato e futuro, senza
un presente che non sia la fuga. Quando essi giungono ad affermarsi come
persone nuove e vere, attraverso la compassione prima, l'amore poi, nell'attimo
sublime del riconoscimento (dove per la prima volta si chiamano con il loro vero
nome, svelandosi reciprocamente l'intero mistero della loro identità), in quel
momento stesso si consegneranno nelle braccia della morte. Un'aura tristaniana
avvolge come un sudario gran parte di questo primo atto. Tristano viveva già
nella mente di Wagner, lo sappiamo; ma è di estrema importanza che di qui più
d'uno spunto tematico passi direttamente in esso, già nel preludio (il famoso
salto di sesta), per esservi sviluppato e compiuto in nuova ricchezza di forme.
Questa capacità di caratterizzazione della musica, questo
suo inabissarsi in un simbolismo di inaudita pregnanza per poi riemergere
rigenerata e più temprata, raggiunge nel primo atto della Walkiria vertici supremi. Si prenda il passaggio dalla prima alla
seconda scena: spentasi l'eco dell'appassionato canto d'amore di Siegmund,
culminato nel nostalgico assolo del violoncello, un motivo rude annuncia
l'arrivo di Hunding, attraverso due gradi successivi: prima piano, quasi
velato, come una minaccia incombente, poi in tutta la forza di uno spessore
fonico massiccio. E facile notare che Wagner ottiene l'effetto desiderato
affidando quel motivo, la seconda volta, alla compagine delle tube. Un
improvviso squarcio degli ottoni dopo una lunga sezione dominata dal canto
melodioso degli archi è espediente in sé abbastanza consueto, al pari di tanti altri
bruschi contrasti di cui è capace la musica. Quel che conta è l'intuizione
espressiva e l'uso del materiale che simili contrasti governa. Vi è qui in esso
stillato come un veleno mortale, simbologia della morte che comprenderemo
appieno solo quando quel ritmo inesorabile e l'accordo ribattuto che lo
caratterizza riecheggeranno nella marcia funebre del Crepuscolo (nella tonalità della morte, do minore, qui come là). La
relazione è ancora una volta sotterranea, ma precisa, sapiente: ché Hunding,
qui, è l'angelo della morte di Siegmund, come Hagen lo sarà, là, di Siegfried.
Siegmund inizia, subito dopo, il lungo racconto delle proprie e altrui sventure, dove temi già uditi e ben noti si intrecciano in rapida successione ad altri di nuovo conio, seppur da essi derivati. Segnaliamo, fra i primi, quelli che rammentano la onnipresenza di Wotan, padre e protettore della razza dei Welsunghi, la cui ombra aleggia in tutta la rievocazione di Siegmund; e, fra i secondi, uno solo, ma di fondamentale importanza per comprendere il risvolto psicologico dell'azione: allorché Siegmund, interrogato da Sieglinde su chi egli sia, esita un attimo a rispondere ("solleva lo sguardo, la fissa profondamente negli occhi e incomincia gravemente", indica la didascalia), prima delle sue parole (che potranno dire solo chi egli non è: non Friedmund - apportatore di pace -, non Frohwalt - uomo gioioso -, ma solo Wehwalt - letteralmente colui che vive nel dolore e di dolore; sarà Sieglinde, più tardi, a nomarlo Siegmund, che significa angelo di vittoria), risuona in orchestra (ancora violoncelli soli) una melodia che poco a poco, dopo un lancinante salto ascendente di settima, si estingue nel nulla. Non è solo, come spiegano le guide tematiche, il "motivo della razza dei Welsunghi", quella a cui Siegmund, unica sua certezza, sa di appartenere. La sua costituzione, il suo ritorno associato a Brunilde nel terzo atto, ci dicono anche che a esso è legata l'ansia di identità individuale di Siegmund, come incarnazione vivente di un bisogno d'amore; di più, la sua storia (racchiusa in poche note isolate, ma cariche di valore semantico se riflesse su tutto il resto) di tristezza e di solitudine. E il peso insostenibile di tanta tristezza e solitudine che spaventa Hunding ed esalta Sieglinde, che squarcia il velame delle tenebre e spalanca davanti ai loro occhi la verità delle cose. Per il vincolo del sacro diritto di ospitalità, Hunding è obbligato a risparmiare per una notte il nemico disarmato: ma l'indomani sarà guerra e vendetta mortale.
La terza scena, che si apre sul pianissimo dei timpani soli, quasi un richiamo che si spenga nella notte, dopo un passaggio orchestrale di sgomentante bellezza, porta a compimento la vicenda con ritmo serrato. Nella solitudine notturna Siegmund ripensa con angosciosa speranza alla spada apportatrice di vittoria promessagli un giorno dal padre. Quella spada si trova là: prima ancora del famoso racconto di Sieglinde ("Der Manner Sippe", uno dei rari pezzi chiusi della Tetralogia), lo apprendiamo inequivocabilmente dall'eroica fanfara del suo tema (prima piano, in minore, poi nell'animato fulgore di uno sfavillante do maggiore, quando Siegmund la scorge infissa nel tronco). Col racconto di Sieglinde, in cui torna solenne il tema del Walhalla, i due si riconoscono fratelli gemelli, ma si sentono attratti da un legame più forte, quello dell'amore. Un tocco poeticissimo giunge a questo punto dall'esterno: una brezza lieve apre la porta, lasciando entrare un tranquillo raggio di luna. Come la primavera subentra all'inverno e la serenità alla tempesta, con la stessa forza naturale, lo stesso affiato cosmico che manda in frantumi le catene della legge e del costume esaltando un amplesso adulterino e incestuoso, Siegmund e Sieglinde vanno incontro al loro destino inebriati dall'incantesimo dell'amore. Nel duetto che segue tutto un rifrangersi di ombre e di luci, di ricordi, nostalgie e speranze Siegmund intona sull'identica melodia con la quale Alberich aveva rinunziato all'amore maledicendolo, parole fatali e decisive: "D'un sacro amore suprema angoscia, d'un ardente amore consumante angoscia, chiara mi brucia nel petto, mi spinge ad agire e a morire". Poi, al culmine dell'esaltazione, estratta dal tronco del frassino Nothung, la spada in esso conficcata da Wotan, fugge con Sieglinde nella foresta, sotto la luna, invano inseguito dal vorticoso slancio dell'orchestra, dove si mescolano estasi e affanno. Deciso ad agire per poter morire.
La meravigliosa capacità della musica wagneriana di rappresentare col suo proprio linguaggio (proiettando come in un caleidoscopio
magico diversi complessi tematici nel centro focale di una simultaneità
contrappuntistica in perpetuo, rapido movimento) eventi drammatici diversi che
si svolgono nel medesimo spazio di tempo in luoghi lontani l'uno dall'altro e
nascosti ai nostri occhi, tocca un virtuosismo stupefacente nell'impetuoso
preludio del secondo atto. Giù, sulla terra, la fuga della coppia ebbra d'amore
e fidente nella spada appena conquistata, sulle cui tracce già corre Hunding
con i suoi uomini e la muta dei cani, implacabile come una belva ferita; in
alto, nel mondo "superiore" degli dei, sulla cima di una montagna
rocciosa, l'incontro luminoso e felice fra Wotan e la figlia Brunilde. A
sipario chiuso, noi non vediamo tutto questo, ma lo sentiamo distintamente
attraverso la musica. Questa potente concentrazione drammatico-musicale del
preludio, rispecchiandosi nella trasformazione tematica come nelle tensioni
armoniche, nelle relazioni ritmiche come nella scelta, importantissima, di
registri e timbri, si distribuisce nell'arco di cinque scene accomunate da una
profonda unità linguistica, di tipo affatto nuovo rispetto a tutti i precedenti
lavori del compositore. Non v'è dubbio: è col secondo atto della Walkiria che comincia la vera, cosciente
evoluzione di Wagner.
In un ottimistico clima sonoro, stridente di contro alla
tenebrosa oscurità delle due scene successive, la Walkiria appare per la prima volta nelle sue vesti di vergine
guerriera (Brünnhilde, per noi Brunilde, significa "colei che combatte con
la corazza"). E una apparizione breve, drammaticamente necessaria solo per
muovere le future contraddizioni di Wotan, ma caratterizzata splendidamente dal
grido di guerra ("Hojotoho!"), nucleo tematico della celebre cavalcata
del terzo atto, tutto contesto di terribili audacie (a freddo, per di più!)
nella tessitura vocale che, con salti amplissimi, dal registro grave si spinge
fino al do acuto. Con l'arrivo di Fricka, venuta a reclamare i diritti della
legge e del costume violati dai gemelli incestuosi, Wotan comincia ad assumere
quei contorni che ne faranno il protagonista indiscusso dell'opera. Questa
lunga "scena di vita coniugale" statica e grigia, con da una parte
Fricka, dea del focolare domestico, del matrimonio e della famiglia, eppure
sposa esacerbata, sterile, tradita e sovente abbandonata, e dall'altra Wotan,
padre degli dei, custode delle leggi ma di fatto assertore ardito della libertà
dell'eros, è quasi da ognuno giudicata una caduta dall'elevato stile tragico
che permea tutta la Walkiria.
Vedendovi uno spaccato di vita e di contrasti borghesi, più ottocenteschi che
mitici, alcuni spettacoli accentuano una ambientazione datata all'epoca di
Wagner, con risultati affascinanti ma rischiosi e forzati. Non sta comunque a
noi sbrogliare simili nodi. Certo è che la ricchezza tematica, le sottigliezze
armoniche, i trapassi psicologici e la incisività del dialogo, evidenti già nel
testo nelle continue metamorfosi della materia musicale, non giustificano
affatto l'ipotesi di una caduta d'ispirazione né, come si è tentato, una
lettura univocamente autobiografica di questa scena. Basterebbe por mente alla
necessità drammatica di essa come passaggio graduale verso la presa di
coscienza di Wotan, verso la tremenda esplosione di una elementare grandezza
tragica quale ci appare nel grande monologo della seconda scena. Monologo, come
già dicemmo, anche se realizzato nel dialogo con Brunilde: dove Wotan, novello
Edipo, apprende fino in fondo l'intimo inganno cui la sua ansia di liberazione
e di riscatto soggiace. Scena davvero fondamentale e terribile, come sembrò
allo stesso Wagner in una rivelatrice lettera-confessione a Liszt: "Nelle
mie ore di scoraggiamento, al cessare dell'estasi, mi sgomentava più di tutto
la gran scena di Wotan, massime nella sua terribile rivelazione a Brunilde;
cosicché a Londra ero giunto perfino al punto di rinunciare affatto a tale
scena. Per prendere una decisione in proposito, pigliai l'abbozzo ed eseguii al
pianoforte la scena con tutta la necessaria espressione; per fortuna trovai che
il mio spleen era ingiustificato, e
con una esecuzione acconcia fa un puro effetto musicale ed incantevole".
Alle ragioni di Fricka, che esce trionfante, Wotan non può
ormai opporre che una cupa meditazione, mentre dall'orchestra tre tromboni
fanno impietosamente udire il tema della maledizione di Alberich. Ora in
orchestra, su un prolungato pedale di re grave di fagotti e clarinetto basso,
si staglia, ripetuto cinque volte di seguito dai violoncelli, un nuovo motivo,
tortuoso e pesante, emerso dal precedente dialogo con Fricka: espressione della
collera, della disfatta e infine dell'angoscia che attanaglia il dio sulla
soglia del declino. Wotan "lascia cadere il braccio con gesto d'impotenza
e abbassa il capo": "nel mio stesso laccio mi sono preso, io il meno
libero di tutti!"- sono le sue prime parole. E’ chiaro che siamo al
momento della verità. Nel canto di Wotan l'elemento predominante è l'intensità,
in oscillazione costante fra sussurro e grido, accento brutale ed estrema dolcezza
di pianissimi al limite dell'udibile. Brunilde, il capo appoggiato sulle
ginocchia del padre, ne ascolta la confessione con trepido interesse. Nel lungo
recitativo ritornano i momenti salienti della storia passata, accompagnati dai
temi che li videro accadere: e sono reminiscenze già avvolte nel rimpianto,
ricordi di un tempo perduto. Ecco le origini del male che rode gli dei, la maledizione
dell'anello che tutto corrompe; ecco l'origine di Brunilde e delle sue sorelle
Walkirie generate da Erda; ecco, al culmine della rievocazione, il grido
lancinante a esprimere la folle speranza in un eroe che liberi gli dei dal
patto funesto: grido che tosto si muta in disperazione, angoscia, desiderio di
morte. Das Ende, das Ende, la fine,
la fine! E là, quando la seconda volta il grido si attorce nelle spire di un
mortale do minore (pianissimo, contro il violento fortissimo della prima volta
su un inatteso, svettante accordo di mi maggiore), risuona il tema di Erda,
figura del destino alfine compreso, alfine ammesso, alfine desiderato: quel
destino che Alberich, ben più operoso di Wotan per la potenza dell'odio, si
incaricherà di compiere. Ma non basta. Il furore del desiderio di una
catastrofe, già al suo vertice, si acuisce ancora in un crescendo orchestrale
spaventoso allorché Wotan giunge a benedire l'opera di annientamento del figlio
del Nibelungo, mezzo di distruzione finale di tutto e di tutti. Carattere, è
stato osservato, tipicamente e pericolosamente tedesco, e fors'anche un po' paranoico:
la distruzione, anzitutto la autodistruzione, come panacea di ogni male. Ha
ragione chi ha ambientato questa scena in un bunker di Berlino tristemente
famoso, in pieno 1945? E’ questo il senso della rinuncia ad agire con cui
Wotan, accettando il destino, compie l'unico atto di libertà a lui possibile?
Alla figlia che invano ha tentato di opporsi, il padre
comunica l'esito di un groviglio inestricabile di destini: Siegmund morrà, reo
di colpe che trascendono il suo stesso agire. A Brunilde sia ora affidato il
compito di apprestargli morte sul campo, come è dovuto a un eroe. A questo
punto i temi, nella tragica caduta delle linee melodiche, dei registri tesi
fino a spezzarsi, dell'intensità che si abbatte dal fortissimo al mormorio,
sembrano straziarsi in brandelli. Poi, improvvisamente, in orchestra si fa
silenzio, un silenzio rotto appena dal richiamo dei timpani. Da questo
silenzio, da quei brandelli, dopo le ultime parole di una Brunilde rassegnata,
sorgeranno nuovamente il tema del crepuscolo in violoncelli e contrabbassi, e
quello dell'amore dei Welsunghi, sospirato dal corno inglese.
Un'agitazione via via crescente segna il passaggio dalla
seconda alla terza scena, preparando l'ingresso di Siegmund e Sieglinde in
fuga. Al canto tenero e appassionato di Siegmund la donna risponde con parole
di terrore e visioni allucinate. Il ritmo di Hunding incalza con la sua
minaccia di morte, la tensione si fa febbrile. Uno stesso accordo di settima
diminuita si ripete otto volte, fisso e selvaggio, quando al massimo del
delirio Sieglinde crede di non vedere più l'amato. Una ferrea maglia di
successioni cromatiche attanaglia come in una morsa i due amanti. Sieglinde, nella
sua cecità veggente, predice la fine del fratello. Poi sviene.
La stupenda quarta scena (la famosa Todesverkündigung o annuncio di morte) si apre col motivo del
destino (tube) prolungato dal ritmo funebre dei timpani e legato da pause dense
di espressione allo straziante canto di morte (trombe sostenute dai tromboni)
che dominerà tutta la scena. Ma rilevare le audacie armoniche o in assoluto i
miracoli della tecnica compositiva wagneriana significherebbe cogliere solo
l'involucro esterno di una pagina mistica e umanissima, dove genio e
commozione, enigma quasi insondabile e massima chiarezza di accenti si
mescolano a un senso di attesa e di inquietudine dolorosa. Brunilde si avvicina
lentamente, scortata dal tema del Walhalla; posa un lungo sguardo su Siegmund,
lo chiama per nome e gli annuncia il destino di morte. Egli risponde assumendo
su di sé la melodia che all'inizio era risuonata in orchestra come canto di
morte, quasi a voler accettare spontaneamente quel destino. Tre temi funebri si
concentrano a questo punto contemporaneamente, ognuno affidato a un elemento
specifico del linguaggio musicale: armonia (accordi del destino), melodia
(canto di morte) e ritmo (pulsazione dei timpani). Quando però Siegmund
apprende che nel Walhalla, cui è destinato, non potrà seguirlo Sieglinde, in un
repentino moto di ribellione minaccia di uccidere la sorella con la spada
Nothung, alla quale Wotan ha tolto ogni potere in battaglia. E allora che
Brunilde, in un'impennata di amore e di pietà per l'eroe che cresce nel grembo
di Sieglinde, decide di trasgredire l'ordine ricevuto e promette di salvare i
fratelli, accordando a Siegmund la vittoria.
Un breve interludio sinfonico che sembra riassumere,
potenziato più che placato, tanto tumulto drammatico e musicale, conduce alla
quinta e ultima scena dell'atto. Siegmund ritorna verso Sieglinde addormentata,
e i temi del "vero" amore terreno ripassano, dolci come un raggio di
sole prima delle tenebre, per l'ultima volta. Tutto converge ormai sui colori e
sul mondo sonoro individuati dalla Walkiria: la sua pietà, i suoi ritmi
guerreschi. Non solo: d'un tratto ci accorgiamo che Sieglinde dorme vegliata da
un motivo che prefigura il sonno di Brunilde alla fine dell'opera.
L'azione, che si è svolta con logorante lentezza nelle prime quattro scene, precipita, nell'ultima, in catastrofe fulminea. Tutto, nel corrusco paesaggio musicale, si fa adesso concreta minaccia. Si ode, fuori scena, lo squillo del corno di Hunding, mentre Siegmund si avvia alla battaglia. Sieglinde, rimasta sola, si risveglia come da un incubo, rivivendo allucinata il trauma della sua infanzia, il rogo della casa, la violenza subita. Violenza chiama violenza. Sul tema del patto e della schiavitù all'anello la lancia di Wotan spezza la spada di Siegmund che, disarmato, cade trafitto da Hunding. I due simboli originari e fondamentali della Tetralogia, la lancia e la spada, cozzano qui per la prima volta l'uno contro l'altro (dai frammenti raccolti da Brunilde, Nothung risorgerà forgiata da Siegfried. E nel Siegfried sarà la spada a mandare in frantumi la lancia di Wotan). Siamo all'epilogo dell'atto: mentre Hunding muore folgorato dal gesto sprezzante di Wotan, Brunilde con una cavalcata selvaggia ha portato via Sieglinde. In preda a terribile furore, il dio si slancia all'inseguimento per punire colei che ha osato trasgredire l'ordine ricevuto, seguito, come un presagio funesto, dal tema del crepuscolo che si dispiega ora in un ampio arco, in tutta la sua interezza.
***
L'inizio del terzo atto riporta al clima tempestoso,
spazzato dalla furia degli elementi, del preludio del primo e della fine del
secondo atto. A sipario chiuso, non un preludio questa volta, ma già un'azione
musicale colta nel suo svolgersi: è la famosa, famosissima cavalcata delle
Walkirie. Qui Wagner si fa ammirare una volta di più come scaltrito
manipolatore di effetti musicali: spessore fonico inaudito, intrecci
contrappuntistici fittissimi, ma anche metamorfosi di colori e di timbri sulla
fissità di un'unica cellula ritmica ternaria. In tale groviglio orchestrale
svettano le otto voci delle Walkirie, spinte audacemente verso l'acuto, fra
spasimi di cromatismi, trilli e contrappunti ritmici, ma soprattutto, nel corso
della scena grandiosa, combinate a formare degli insiemi, un vero coro. Ed è la
prima volta che nella Tetralogia accade qualcosa di simile. Senza soluzione di
continuità, la cavalcata si muta nella fuga di Brunilde, inseguita da un
tremendo uragano dentro il quale è Wotan stesso. Invano Brunilde invoca la
protezione delle sorelle, non per se stessa, ma per Sieglinde prostrata che
chiede solo di morire. Il canto della donna, nobile e semplice, intriso di
estrema malinconia, sembra venire di lontano. Anche il passato, per lei, non è
che vano rimpianto. Ma alla rivelazione di Brunilde ("un wälside ti cresce
in grembo"), uno scoppio di gioia improvvisa e il grido: "salva mio
figlio! salva la madre!" Tutto si svolge in un attimo, in una concitazione
frenetica. Sieglinde fuggirà da sola verso oriente, dove Fafner custodisce il
tesoro dei Nibelunghi e Wotan non ardisce inoltrarsi; Brunilde, intanto, lo
tratterrà. L'addio fra le due donne raggiunge vertici di sublimità indicibile:
nel canto di Brunilde, che svela la grandezza del futuro eroe, risuona per la
prima volta nella forma completa il tema di Siegfried, e il nome di Siegfried.
Sieglinde, prima di benedire la Walkiria con quanto ha di
più caro, il suo dolore, intona accenti di toccante riconoscenza su un motivo
nuovo, un gioiello infuocato di pura, naturale bellezza. Si ricordi questo
motivo: riapparirà una volta soltanto, alla fine del Crepuscolo degli dei, per celebrare la redenzione d'amore. Esso non
guarda più a Tristano, ma a Parsifal, ultima giornata nel lungo
cammino del dramma musicale wagneriano.
Con effetto teatralissimo, la voce di Wotan tuona fuori
campo, mentre Brunilde si nasconde dietro le sorelle. Le parole del dio, nel
furore brutale che lo acceca, sono come inchiodate dal motivo della collera
alternato a quello della lancia custode dei patti (scena seconda). Quando
Brunilde gli comparisce davanti, Wotan comunica la punizione: la vergine,
ripudiata e degradata dal suo rango di Walkiria, addormentata in sonno inerme,
sarà svegliata e posseduta dal primo uomo che la troverà sulla sua strada. I
temi "oscuri" si addensano annunciando le più paurose minacce. Le
Walkirie, che hanno tentato una poco convinta difesa della sorella in un
episodio fugato curiosissimo, quasi ironico, vengono rudemente scacciate. Wotan
e Brunilde si ritrovano nuovamente soli, l'uno di fronte all'altra. Una grande
linea melodica (una vera "melodia infinita" wagneriana) sorge dal
profondo nel clarinetto basso, passa poi nel corno inglese e nel fagotto,
introducendo la terza scena, l'ultima e più commovente dell'opera.
Disperazione e silenzio, ancora. Nella quiete che ha seguito
l'uragano, il crepuscolo vespertino cede poco a poco alla notte. Brunilde,
mentre l'orchestra tace, chiede a se stessa, prima ancora che a Wotan, dove
risieda in realtà la colpa di cui si è macchiata. Nell'aver disubbidito a un
comando empio, imposto da Fricka? O nell'aver ubbidito alla voce del cuore,
alla volontà più intima di Wotan? In questo dialogo, nonostante la profondità
dei concetti e l'alto virtuosismo della forma poetica, la musica trascende di
gran lunga il testo, raggiungendo una dimensione veramente sinfonica, puramente
musicale. Sotto questo aspetto, siamo di fronte al più grande finale d'opera di
Wagner. Perfino il canto non è più qui veicolo del dramma, ma valore musicale
astratto, melodia assoluta. Ciò è evidente non soltanto nel punto di massima
concentrazione sinfonica (l'addio di Wotan e l'incantesimo del fuoco), ma anche
prima. Basterà citare due esempi: il ricordato canto solo di Brunilde
all'inizio della scena (formato di due parti: un antecedente che si innalza dal
grave verso l'acuto sulla spinta del salto ascendente di settima che era
appartenuto a Siegmund nel primo atto; e, dopo una lunga pausa, un conseguente
che ripercorre il cammino inverso, dall'acuto al grave, sulle parole:
"così nel profondo tu mi abbassi"); e, verso la metà, il meraviglioso
canto di Brunilde in mi maggiore, con cui ella, imponendosi a Wotan, rivela le
ragioni del suo agire: l'amore come giustificazione della disubbidienza. Ma è
nella parte finale dell'opera che la musica celebra il suo trionfo, con
intensità espressiva ancor maggiore. Wotan, cedendo alla richiesta di Brunilde,
ha acconsentito a recingere la rupe, dove ella dormirà il lungo sonno, con una
cortina di fuoco che la protegga dall'uomo vile e comune. L'addio alla figlia
amatissima nasce da una intima, disperata rinuncia (duplice rinuncia: verso se
stesso e verso Brunilde), ma si volge in estatica commozione al pensiero
radioso del venturo Siegfried, "il solo più libero di me, dio!". A
questo punto un oceano smisurato di chiarore pervade l'orchestra, per
suggellare, nella definitiva consacrazione alla luce della tonalità di mi
maggiore, la vittoria dell'amore. Dopo quell'ultima, sconvolgente esplosione
sinfonica, ritorna la pace, in una trama musicale più distesa, sovrastata dalla
melodia ipnotica e cullante del sonno fatato di Brunilde, fino all'episodio
delicatissimo del bacio che addormenta la Walkiria. Poi, l'incantesimo: Loge,
dio del fuoco, evocato dalla lancia sul tema del patto, si mostra per compiere
l'opera. La magia del fuoco, il guizzare di Loge a noi ben noto dall'Oro del Reno, diventa magia sonora in
orchestra, un vero miracolo di scrittura strumentale (all'organico della grande
orchestra wagneriana si aggiungono anche un Glockenspiel
e sei arpe: con quale scintillante trasparenza!). Fuoco magico e sonno magico
sono ormai tutt'uno. Le ultime, solenni parole di Wotan ("Chi della mia
lancia teme la punta, mai non traversi il fuoco!") risuonano sul tema di
Siegfried. E un comando o una profezia dell'eroe senza paura che, dopo aver
spezzato la lancia, verrà a risvegliare Brunilde? Con un lampo di sconcertante
ambiguità Wagner ci congeda dalla prima giornata della Tetralogia. Mentre gli
ottoni amplificano, grandioso, il tema di Siegfried, i violoncelli indugiano
accorati sul canto dell'addio di Wotan. Ed ecco, come a un richiamo, ma perso
nelle faville del fuoco, ancora una volta appare il motivo del destino. Così
nel tumulto, nel dolore della rinuncia e della impotenza, volgendosi indietro
nella notte, Wotan sparisce dalla nostra vista.
Da questo delirio che incendia intorno a noi la notte silenziosa, sorgerà un giorno l'amore?
Musica Viva, n.12 – anno XVIII